Dal libro “Uscire dalla paura” di Krishnananda
Rompere l’identificazione col bambino emozionale
Feltrinelli Editore 2008
Krishnananda (Thomas Trobe), psichiatra, laureato a Harvard e all’Università della California, è diventato poi discepolo del maestro spirituale Osho. Fa parte ora della Osho Academy e guida gruppi di crescita. Ha individuato nella co-dipendenza una delle principali fonti di malessere degli esseri umani contemporanei. Ha pubblicato anche “A tu per tu con la paura” (Urra 1997, Feltrinelli 2006) e “Fiducia e sfiducia” (Urra 2004).
Lo stato mentale del bambino emozionale
Consideriamo più dettagliatamente il bambino emozionale.
Immaginate che un bambino entri, proprio ora, nella vostra camera e vi chieda di uscire a giocare con lui. Comincia a fare i capricci. Voi vorreste che capisse che potrete giocare con lui domani, che oggi non è proprio possibile. Ma “domani” non significa nulla per lui. Si mette a pestare i piedi: “No! Adesso!” dice. Finché, pieno di rabbia, scoppia a piangere.
Dentro di noi abbiamo una parte che è esattamente come quel bambino: non ha alcuna nozione del domani, non sopporta di aspettare né di venire contrariata, non sa posporre la gratificazione e il piacere a un altro momento perché non crede che ci sia un “altro momento”, non ha la possibilità dentro di sé di contenere il dolore o la frustrazione. Sebbene ciascuno abbia un proprio comportamento, magari un po’ diverso da quello di altri, la profonda esperienza di quello spazio è per lo più la stessa per tutti noi Possiamo chiamarlo “stato mentale del bambino ferito” o spazio interiore del “bambino emozionale”.
In questo stato di coscienza siamo incapaci di stare con ciò che c’è, di essere presenti e contenere l’esperienza, siamo spaventati, diffidenti e molto insicuri. E queste paure ci rendono impulsivi, reattivi e costantemente inquieti.
Quando ci troviamo in questa struttura mentale non siamo di solito consapevoli di nient’altro in noi se non di questo spazio, ci identifichiamo totalmente col bambino emozionale, incapaci di vedere che non è ciò che siamo. Molti, a causa di ferite subite nell’infanzia, ferite profonde e non ancora guarite, sono sempre stati pieni di paura, vergogna e sfiducia, finendo col crearsi un’identità basata su quel bambino emozionale. Ma quelle qualità non sono parte della nostra natura, ci sono state instillate come risultato del condizionamento e delle esperienze su cui non avevamo controllo.
La mancanza di comprensione – di “spazio” – per le paure, i bisogni e i comportamenti del bambino emozionale, crea infelicità nella nostra vita ed è causa di molti dei nostri problemi, soprattutto nelle relazioni. Spesso, nei nostri seminari, mostriamo il film Luna di fiele, di Roman Polanski, in cui possiamo vedere ciò che succede quando entriamo in una relazione vivendo, inconsapevolmente, nello stato mentale del nostro bambino. Il film è la storia di una relazione amorosa. La prima parte mostra l’inconsapevolezza di due persone che si innamorano credendo di avere finalmente trovato l’amore che cercavano. Poi, a mano a mano che la loro relazione si approfondisce, ciascuno dei due scende sempre più a compromessi, riempiendosi di risentimento verso l’altro. Dapprima uno è tiranno dell’altro, ma poi i ruoli si scambiano. Sebbene la fine sia un po’ troppo drammatica, viene mostrato chiaramente come l’amore senza la consapevolezza porti solo dolore e distruzione.
Nella mia ricerca ho scoperto che quando penetro in profondità nello stato del bambino emozionale ci sono due aspetti. Il primo, ciò che è manifesto, è costituito dai comportamenti che condizionano la nostra vita quando siamo catturati dal bambino emozionale: 1) reazione e controllo, 2) aspettative e pretese, 3) compromesso, 4) assuefazione e 5) pensiero magico. Sono le cinque facciate che l’altro si trova davanti quando si relaziona con noi. Dietro questi comportamenti c’è un’altra parte, più profonda, costituita dalle emozioni dello stato mentale del bambino ferito: 1) paura e choc, 2) vergogna e insicurezza, 3) bisogno e vuoto, 4) angoscia e 5) sfiducia e rabbia.
Dirò subito qualcosa a proposito di ciascuno dei cinque comportamenti ed emozioni, ma li tratterò più dettagliatamente nei successivi capitoli.
Quando siamo nello stato mentale del bambino reagiamo in modo automatico agli eventi della vita. Le reazioni sono determinate dalla paura che se non reagiamo ci accadrà qualcosa di brutto o non riusciremo a ottenere ciò di cui abbiamo bisogno. Dallo stimolo passiamo automaticamente alla reazione, senza alcuna consapevolezza di cosa stia succedendo e perché; lo spazio tra lo stimolo e la reazione è infinitesimale. Reagiamo così velocemente e automaticamente perché sentiamo che è questione di vita o di morte. Sempre. Reagiamo tutte le volte che ci sentiamo minacciati, reagiamo per soddisfare i nostri bisogni, reagiamo quando non ci sentiamo al sicuro, amati e apprezzati.
Quando due persone si incontrano nello stato mentale del bambino, ciascuno vede nell’altro qualcuno che deve prendersi cura dei suoi bisogni insoddisfatti o qualcuno che, in qualche modo, potrebbe fargli del male. Ne risulta che ciascuno si sentirà spinto a controllare l’altro in ogni modo possibile e le conseguenze saranno conflitti, aspettative insoddisfatte, incomunicabilità, giochi di potere e dolore.
Il bambino interiore ha delle aspettative sugli altri e sulla vita. Si aspetta che i suoi bisogni saranno soddisfatti e che sarà liberato dalle paure e da ciò che lo affligge. E’ naturale che un bambino senta così, perché trovandosi in uno stato di impotenza e insicurezza cos’altro potrebbe sperare per sentirsi al sicuro? In certi casi sono state vissute talmente tante delusioni che le aspettative sono state seppellite sotto uno strato di rassegnazione, ma sono ancora lì, nascoste nei desideri del nostro bambino emozionale. Questo aspetto dello stato mentale del bambino può, per alcuni di noi, essere piuttosto evidente: abbiamo delle pretese e gli altri ci devono ciò che vogliamo e, quando le cose non vanno come vorremmo o ci sentiamo privati dell’attenzione, biasimiamo e accusiamo convinti di essere stati trattati ingiustamente.
E’ anche naturale che quando siamo nello stato mentale del bambino, basato sulla paura e sulla vergogna, viviamo una vita di compromessi. La vergogna e la paura portano al compromesso perché siamo terrorizzati da ciò che gli altri potrebbero pensare e, in questo stato, abbiamo perso il contatto con la nostra forza e la fiducia in noi stessi, nei nostri pensieri, emozioni e intuizioni. In breve, non viviamo per noi stessi ma per gli altri.
Quando siamo dominati dallo stato mentale del nostro bambino siamo anche inclini all’assuefazione. Questo bambino, proprio come farebbe qualsiasi bambino, vuole un’immediata gratificazione e se non siamo capaci di osservare e di prendere distanza dalle nostre emozioni e paure, cercheremo di aggrapparci a qualcosa che possa darci sollievo. Spesso si tratta di assuefazioni croniche e non siamo nemmeno consapevoli della loro presenza o di cosa le guidi. Ma se potessimo avere una comprensione di quanto terrorizzato è il bambino emozionale dentro di noi, avremmo forse più compassione per le nostre assuefazioni, soprattutto considerando che tutti ne abbiamo.
Infine, quando siamo nello stato mentale del bambino, speriamo magicamente che arrivi la persona giusta a liberarci da ogni nostra paura e dal nostro dolore, speriamo di venire liberati dalla solitudine e da tutto ciò che ci affligge. Cerchiamo di cambiare amici e amanti in ciò che vorremmo che fossero, oppure andiamo da qualcun altro, sperando che questi soddisferà finalmente le nostre aspettative. In entrambi i casi non dovremo sentire il dolore della solitudine quando ci deluderanno. Il nostro bambino emozionale non può vedere le cose così come sono perché le idealizza: ha bisogno di sentire che le persone e la vita sono in un certo modo, per sentirsi al sicuro e mettere ordine nel proprio mondo interiore. Quello che fa è semplicemente immaginarsi che le cose sono così come vuole che siano, mette certe persone su un piedistallo e vive nella speranza e nell’illusione.
E’ facile riconoscere i comportamenti del nostro bambino emozionale. Per mettere invece a nudo le emozioni che stanno dietro questi comportamenti occorre un ulteriore passo in profondità. Le paure sono ben radicate nella nostra mente e si basano su esperienze passate, alcune delle quali sono state dimenticate; inoltre, siccome il bambino è ferito, quando ne siamo dominati non ci sentiamo liberi o spontanei, ma pieni di vergogna, inadeguatezza, senso di inferiorità, tristezza, rabbia e sfiducia. Non ci sentiamo autosufficienti, al contrario ci sentiamo vuoti e aneliamo disperatamente che qualcuno colmi quel vuoto. Siamo spinti a cercare all’esterno il nostro benessere interiore.
Normalmente siamo molto identificati con lo stato mentale del bambino. Quando cattura la nostra coscienza – cosa che può accadere in qualsiasi momento, appena sentiamo la benché minima frustrazione o disturbo – sembra essere totalmente ciò che siamo. Essendo persi nelle nostre reazioni, subissati dalle aspettative o sopraffatti dall’insicurezza e dalla paura, ci è difficile immaginare che ciò accade solo perché il bambino emozionale dentro di noi ha preso il comando.
Sempre, durante i vent’anni in cui sono stato col mio maestro spirituale, il suo più importante messaggio è stato di imparare a osservare. Ci ha sempre detto che la meditazione è la sola medicina che ha da darci, la cura per ogni nostra sofferenza. Ma per far sì che continuassimo ad ascoltare, che continuassimo a “comprare” la medicina, ha dovuto escogitare molte graziose confezioni.
Possiamo applicare l’osservazione a qualsiasi aspetto della nostra vita, ma ho notato che comprendere le nostre difficoltà nelle relazioni – la nostra autostima compromessa e molti dei nostri modelli di comportamento – significa imparare a osservare il nostro bambino emozionale in tutte le sue forme. Tutti noi abbiamo questa capacità di osservare, di contenere e comprendere, ma ci vuole pratica per sviluppare queste qualità. All’inizio viviamo per lo più nello stato mentale del bambino e l’osservare è raro o del tutto assente. Passiamo dallo stimolo alla reazione come dei robot, senza capire perché ci sentiamo e ci comportiamo in un certo modo. Lo stato del bambino non ha consapevolezza di sé, è meccanico, automatico e ripetitivo, ma quando cominciamo a osservare e a comprendere di più lo spazio interiore del nostro bambino emozionale, la capacità di essere un “testimone” si approfondisce e la nostra consapevolezza matura.
Quando incontriamo lo stato del bambino emozionale, possiamo comportarci con esso in modo simile a come ci comporteremmo con quel bambino che entrò nella nostra camera chiedendoci attenzione. Non lo reprimiamo, non lo mandiamo via. Ciò creerebbe solo difficoltà, perché lui andrà altrove a sfogarsi, o potrebbe ripiegarsi su se stesso, nascondendo il suo entusiasmo e le sue doti, come molti di noi hanno fatto. Quello che faremo sarà cercare di capire il suo comportamento e ciò che nasconde: daremo dunque il nostro amore e la nostra attenzione al bambino emozionale, osservando senza giudizio. Questo non lo fa scomparire, ma non sarà più quella potente forza nascosta nella nostra vita che, senza che ne siamo consapevoli, guida i nostri comportamenti e le nostre emozioni. Forse rimarrà sempre dentro di noi una parte spaventata e reattiva, sfiduciata e insicura, ma col rafforzarsi del nostro osservatore e col crescere della nostra maturità possiamo riconoscere che è come un ospite venuto a stare nella nostra casa, possiamo osservare, fare un bel respiro … e lasciar che sia! Questi comportamenti – reazioni, aspettative, assuefazioni e compensazioni – sono sintomi di profonde emozioni nascoste, ma praticando pazientemente “l’essere con” queste emozioni quando sorgono, anziché giudicarle, impariamo a riconoscere e a contenere le sensazioni di sfiducia, paura, vuoto e insicurezza che stanno dietro i comportamenti.
La comprensione dello stato mentale del nostro bambino emozionale può chiarire gran parte della nostra vita, come e perché reagiamo in un certo modo, perché abbiamo dentro così tanta paura, così tanta fame di amore e di attenzione, perché è così difficile lasciare che qualcuno ci si avvicini, perché siamo così inquieti, perché abbiamo problemi a esprimerci nella sessualità, nella creatività, nella capacità di autoaffermazione. In breve, ci dà una comprensione di gran parte della nostra vita di tutti i giorni.
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Paure
Kristin, una mia amica norvegese, è terrorizzata dall’acqua. Non ha alcuna idea dell’origine di questa paura, ma va in panico al solo pensiero di entrare in mare, il che è davvero poco norvegese. Nathan, un altro amico, è un musicista di talento ma, a causa di una paralizzante angoscia da palcoscenico, non si esibisce mai. Andreas, un ingegnere svizzero che ha partecipato a molti dei nostri seminari, ha un incarico di alta responsabilità presso l’amministrazione della sua città, ma ha il terrore di essere anche solo minimamente in contrasto con altre posizioni. Queste paure inspiegabili e irrazionali sono molto comuni. Io ho un sogno ricorrente in cui devo presentarmi a un esame ma sono impreparato e un altro in cui sono completamente solo e cerco disperatamente Amana senza riuscire a trovarla. Quando esploro lo spazio interiore del mio bambino ferito, ciò che trovo è una profonda paura … ogni genere di paura. E mi sembra che, col passare degli anni, quella mia parte spaventata diventi ancora più intensa e, forse, più sensibile. Credo che ci sia sempre stata, ma l’avevo nascosta talmente bene da non poterla sentire o riconoscere così chiaramente.
La paura è un’altra delle qualità cardinali del bambino emozionale e possiamo meglio valutare perché questo aspetto sia così potente, se ci rendiamo conto di quanta paura quel bambino ha costantemente dentro di sé. A un alto livello di consapevolezza, cominciamo a vedere che la paura è un’illusione e che siamo nel grembo di un’esistenza benevola, ma nello stato mentale del bambino non siamo connessi a questa realtà. Dobbiamo prima riconoscere le paure che si agitano nel nostro bambino interiore.
C’è una storia che mio padre mi raccontava quando ero piccolo. E’ la storia di un bambino terrorizzato dai kreplach, dei tipici ravioli ebrei. Un giorno sua madre gli disse che gli avrebbe mostrato che non c’era niente da temere dai kreplach. Lo portò con sé in cucina, lo mise a sedere e, dopo avere steso un impasto di farina, gli chiese se aveva paura. No, rispose lui. Allora tagliò un quadratino di pasta. C’è qualcosa che ti fa paura?, gli chiese. Niente. Allora prese del trito di carne e lo mise al centro del quadratino. E adesso? chiese. No, certo che no! rispose lui. Quindi prese un angolo e lo ripiegò. Hai paura? No! Allora ripiegò un altro angolo. Ancora nessuna paura? Nessuna. Infine, prese l’ultimo angolo e lo piegò. Ahhhhh, kreplach! urlò il bambino.
La paura del nostro bambino ha diverse origini. In primo luogo, non è possibile per una natura così sensibile crescere nello stressante, repressivo e competitivo mondo occidentale senza sviluppare profonde paure. C’è poi il trauma della nascita in un corpo fisico e i diversi modi in cui questa avviene. Gli innumerevoli traumi subiti durante l’infanzia si sono aggiunti a quel trauma originale. Ogni durezza o invasione, sia pure in forma sottile, hanno scioccato la nostra naturale sensibilità. Infine, c’è la pura e semplice insicurezza del vivere in un mondo dove, di fondo, siamo inermi davanti alle soverchianti forze della vita. Abbiamo molte paure ma, alla loro base, ce ne sono due essenziali: quella di non sopravvivere e quella di non ricevere amore, le altre sono dei derivati di queste; se infatti esaminiamo attentamente i nostri comportamenti e le nostre paure ci accorgiamo di come, in un modo o nell’altro, gran parte della nostra vita sia condizionata da queste due.
La nostra cultura non insegna un atteggiamento di comprensione verso la paura, impariamo invece a rinnegarla e ad andare avanti stringendo i denti. Lottiamo per presentare un’immagine che convinca, sia gli altri che noi stessi, che le nostre paure non esistono, vergognandoci di averle. Oppure ci affliggiamo e ci giudichiamo a causa loro. Ma se non abbiamo un rapporto di benevola accettazione con le nostre paure, non lo abbiamo neanche con la nostra sensibilità. E se non c’è apertura nel modo in cui affrontiamo le nostre paure non svilupperemo mai una sana relazione con il nostro potere. Consideriamo il potere non come accettazione ma come assenza di paura, e a causa di questo condizionamento negativo rispetto alla paura impariamo a vergognarci della nostra sensibilità e della nostra vulnerabilità anziché apprezzarne la bellezza, e il nostro potere diviene aggressivo anziché centrato.
Avevo compensato così bene le mie paure che quando, durante gli anni universitari, un mio compagno di stanza abbandonò la scuola e si mise in cura psichiatrica, pensai semplicemente che fosse un debole. Fu solo anni più tardi che cominciai a riconoscere la scissione che avevo dentro di me. In superficie mi ero costruito delle maschere davvero creative per poter continuare a “funzionare” e tenere in mano la situazione, ma a un livello più profondo stavo nascondendo un bambino pieno di paura, pronto a emergere in situazioni di stress come relazionarsi a una donna, dare un esame o partecipare a una competizione sportiva. Una volta, sempre durante l’università, chiesi a una compagna di corso, molto sexy e attraente, se voleva uscire con me. Con mia grande sorpresa mi disse di sì, ma quando andai a prenderla ero talmente nervoso che non mi veniva in mente nulla da dire, nessuna cosa mi sembrava all’altezza. Nel corso della serata divenni sempre più teso finché, giunti a una festa che dava un amico, mi misi a bere di più di quanto potessi reggere … che non è molto. Così, una volta fuori, raccolsi tutto il mio coraggio per darle un bacio, ma finii per vomitare!
Credo che tutti no abbiamo storie orribili come questa. Se la nostra parte sensibile è stata repressa, riemergerà in modi inaspettati o verrà proiettata sulla persona amata. E’’ successo anche a me. Il mio primo amore fu una ragazza molto sensibile che, dopo anni di terapia, aveva finalmente trovato la forza e la fiducia per affrontare, giorno dopo giorno, quella costante sfida che era per lei la vita. Dato che per me la paura era semplicemente qualcosa da superare sbarazzandomene, non riuscivo a capire le sue difficoltà: per me stava solo indulgendo nelle sue paure. La nostra parte sensibile si nasconde o si vendica creando ostacoli, quando viene condannata dalla nostra parte rigida che compensa le sue paure, e da questo nasce una lotta interiore.
La paura, a parte quando viene causata da un pericolo immediato, si basa sul passato, su esperienze e condizionamenti che continuano a vivere nella mente del bambino ferito. E’ una traccia lasciata da esperienze negative, traumi e forme di pensiero cariche di paura che appartenevamo ai nostri genitori, ai nostri insegnanti e alla nostra cultura. Dopo aver osservato con attenzione e senza giudizio le mie paure, ho riconosciuto che non sono basate sulla realtà. Spesso posso vedere come una paura mi sia arrivata da uno o da entrambi i genitori, insinuandosi subdolamente nei miei pensieri. Per esempio, quando ero giovane avevo soprattutto paure connesse al denaro e alla sopravvivenza … e ancora mi sento un po’ in colpa se compro un maglione che costa più di 50 dollari! Ma poi divento consapevole di me stesso; lentamente, riesco a vedere che quando sorge una paura è perché il mio bambino emozionale ha preso il sopravvento.
Quando divento irritabile e frenetico (oltre il mio livello normale) è per me un buon segnale che il mio bambino emozionale ha preso il sopravvento: sta sorgendo una paura provocata dal non riuscire a ottenere qualcosa da qualcuno o scatenata da un disagio fisico, un rifiuto, una critica o dall’idea di fallire. Il primo passo è riconoscere la paura, il secondo è riconoscere che il bambino emozionale ha preso il sopravvento.
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Vergogna e Colpa
Vergogna e colpa sono un’altra delle esperienze cardinali del bambino emozionale. La vergogna è una sensazione di inadeguatezza, di non valere abbastanza. Immagino che ognuno di noi abbia un suo modo di descrivere questa esperienza ma, in ogni caso, non si tratta di un’esperienza piacevole. Quando siamo dominati dalla vergogna non sentiamo più noi stessi, non solo nel senso di non avere un’esperienza positiva, ma di un’assenza completa di esperienza di sé. C’è una caduta di energia, tutto sembra richiedere troppo sforzo e non riusciamo a immaginare di poter essere competenti in qualche cosa o che gli altri ci possano rispettare e amare. Inoltre, per rendere la cosa peggiore, cominciamo a comportarci in un modo che rafforza quella sensazione: diciamo idiozie, facciamo ogni genere di errori, lasciamo sempre tutto in disordine, non completiamo ciò che stiamo facendo o lo facciamo sciattamente, o addirittura ce ne andiamo in giro con un aspetto intontito, finendo poi col sentirci in colpa per essere un tale disastro e affondando nel buco. Da questo spazio vediamo un mondo dove tutti hanno successo, mentre noi non possiamo che fallire, e non ci è possibile immaginare niente di diverso, perché siamo convinti che questo è ciò che siamo, questa è la vita e niente cambierà mai.
Un giorno, proprio nel periodo in cui stavo scrivendo questo capitolo, mentre mi trovavo dal parrucchiere in attesa del mio turno vidi una donna che, come fu servita, si alzò dalla sedia, pagò e si avviò verso l’uscita ma, prima di uscire, si diede un’occhiata allo specchio in modo frettoloso, allontanandosi come se non volesse essere vista. Era davvero una donna attraente, ma il linguaggio del suo corpo diceva che lei non la pensava così. Se teniamo davanti a noi uno specchio, la prima impressione è solitamente di vergogna, invariabilmente troviamo qualcosa che non va e che deve essere migliorata. Vi potete ricordare dell’ultima volta che vi siete sentiti esclusi o che avevate una sensazione di non appartenenza? O che siete stati rifiutati o avete fallito in qualcosa di importante per voi? O quando qualcuno che guardavate con ammirazione vi ha detto qualcosa di spiacevole, oppure eravate con qualcuno verso il quale provavate rispetto e non sentivate voi stessi? Questi momenti provocano la nostra vergogna, e quando ne siamo dominati sentiamo di non andare bene così come siamo. Nei momenti che chiamiamo “attacchi di vergogna” lo sentiamo in modo acuto, ma fondamentalmente è sempre presente e, per alcuni di noi, è paralizzante.
La vergogna è rafforzata da voci interiori che continuamente ci valutano e ci ricordano che non andiamo bene e dovremmo cambiare per essere migliori, per avere successo, per essere dei vincitori. Chi parla è quello che chiamiamo l’ “istigatore-giudice”, che prenderò in considerazione dettagliatamente nel prossimo capitolo. Questo giudice che continuamente ci incalza non potrebbe esistere senza la nostra vergogna, perché è lei a dirci che quelle voci sono vere. L’aspetto paralizzante della vergogna sta soprattutto nel fatto che ci toglie la percezione di noi stessi, ci allontana dal nostro centro precludendoci l’esperienza di sentirci a casa dentro di noi; per molti la vergogna è anzi una sensazione così antica che non hanno mai nemmeno conosciuto quell’intima esperienza. Siamo identificati con la nostra vergogna. Durante una recente visita alla mia famiglia mi ritrovai, dopo cinque giorni (un tempo record!) a entrare in uno stato di vergogna. Sapevo che era vergogna e che si trattava di una fase acuta, ma ne ero totalmente posseduto. Solo dopo essere tornato a casa ed essere rientrato nella mia propria vita ho potuto, grazie anche al supporto degli amici e della comunità, venirne fuori.
Tutti abbiamo vergogna, ma la affrontiamo in modi diversi. Per alcuni è in superficie e si fa sentire con un continuo senso di inadeguatezza. In questo caso si è profondamente identificati col “perdente”. Altri provano periodicamente un senso di mancanza di valore e un sentimento di inadeguatezza, a seconda delle loro esperienze nel mondo: il successo li porta in alto e il fallimento li butta giù, in un’altalena tra superiorità e inferiorità, “vincitore” e “perdente”, a seconda delle risposte che ricevono. Io appartengo a questa tipologia. Ci sono infine altri che hanno compensato così bene la loro vergogna con il “successo” che vedono gli altri come “perdenti” e si credono dei “vincenti”. Per costoro è allora necessario un profondo trauma – una perdita, un rifiuto, una malattia, un incidente, un esaurimento – per guardare in profondità dentro di sé e scoprire la vergogna al di là delle maschere.
Ho sempre vissuto con la convinzione che quando sorgono pensieri e sentimenti di inadeguatezza o fallimento si debba fare di tutto pur di non farsi sopraffare. La mia vergogna era sempre lì, ma non volevo arrendermi, perché sarebbe stato un segno di debolezza o pigrizia. Inoltre, pensavo che se ci fossi entrato non ne sarei più venuto fuori, quindi non vedevo alcun valore nel darmi lo spazio per sentirla. Ho però visto che se non intraprendiamo un viaggio dentro la nostra vergogna non troveremo mai noi stessi. Sia che collassiamo nella vergogna sia che la compensiamo per superarla, essa continua comunque a guidare la nostra vita interiore, quindi dobbiamo in qualche modo connetterci con quella profonda sensazione dentro di noi che dice: “Sono inadeguato, sono un fallimento. Devo nascondere le mie inadeguatezze, altrimenti gli altri si accorgeranno di come sono veramente”. Fare questo mi ha reso senz’altro più umano. Quando invece nascondo la mia vergogna compensandola, mi accorgo che sto fuggendo me stesso. In ogni caso, sotto la superficie c’è sempre una paura nascosta, che non mi lascia nonostante i miei sforzi per superarla e questo può diventare una lotta senza fine, perché, finché non affrontiamo la paura e l’insicurezza alla base della vergogna, ne saremo continuamente ossessionati.
La vergogna è causa di molti comportamenti automatici. Quando siamo identificati con la vergogna non abbiamo fiducia in noi stessi e dipendiamo dalla stima, dall’amore e dall’attenzione degli altri. Diventiamo compiacenti, ci diamo da fare freneticamente, portiamo il nostro soccorso: qualunque ruolo e comportamento che possa darci ciò che disperatamente bramiamo per riempire il vuoto che nasce dalla vergogna. Ho sempre creduto che il mio valore e il mio nutrimento dipendessero da ciò che facevo, che senza le mie conquiste non sarei stato nessuno. (In generale, le donne identificano il proprio valore con la loro capacità di dare e di amare, gli uomini invece si valutano di più in base alle prestazioni. Entrambi partono comunque da un’autoimmagine piena di vergogna.) La ferita della vergogna ci mette in una bolla della vergogna, dalla quale vediamo il mondo come una giungla pericolosa e competitiva, dove non c’è amore ma solo lotta e dove sicuramente non potremo sopravvivere se non lottando e misurandoci con gli altri. Inoltre, quando siamo in questa bolla, crediamo che gli altri siano migliori, più degni d’amore e di successo, più competenti, intelligenti, attraenti, potenti, sensibili, spirituali, generosi, coraggiosi, consapevoli e così via. Ognuno ha naturalmente la sua propria combinazione di questi “di più” che proiettiamo sugli altri. Oltretutto, la nostra vergogna influenza profondamente il modo in cui gli altri si relazionano con noi. Fondamentalmente il messaggio che trasmettiamo è: “Non sono degno di rispetto né di amore, quindi puoi rifiutarmi, abusare o approfittare di me, come e quando vuoi”.
La vergogna, inoltre, perpetua se stessa. Andiamo verso gli altri cercando conferma del nostro senso di sé pieno di vergogna. Viviamo nel compromesso, ci relazioniamo nel compromesso e, abituandoci a vedere noi stessi come una persona che fa compromessi, nutriamo la nostra autoimmagine piena di vergogna. Questo comportamento richiama il rifiuto, abbassando ancora di più la nostra autostima. La tensione, a partire da questa autoimmagine frammentata,, continua a crescere e facilmente possiamo scivolare in forme di assuefazione e di comportamento compulsivo. E tutto questo va ad aggiungersi alla nostra vergogna.
La vergogna, sebbene sia un fenomeno che ci influenza globalmente, può essere osservata maggiormente in alcune aree della nostra vita e meno in altre. A causa del nostro passato possiamo provare una vergogna e un’insicurezza profonde connesse al corpo, alla sessualità, alla creatività, al coraggio, all’espressione di sé, all’essere genitore, ai sentimenti o alla sensibilità. Questa vergogna influenza il modo in cui ci relazioniamo, spesso trattenendoci dall’essere aperti. E’ come se avessimo una profonda cicatrice nel nostro essere e non vedessimo alcuna possibilità di guarirla. Costantemente passiamo dalla vergogna alla colpa, alla sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato. Mi accorgo che ogni volta che Amana per qualche ragione si sente triste o malinconica mi sento immediatamente responsabile. Le voci della vergogna dicono: “Non sei abbastanza amorevole, non stai dando abbastanza sostegno e attenzione”. Dalla vergogna di non essere abbastanza sensibile sono sempre passato al senso di colpa per aver detto la cosa sbagliata o essere stato ossessivamente focalizzato su me stesso, dalla vergogna di sentirmi irresponsabile al senso di colpa per non valere abbastanza. Una lista interminabile!
A un certo livello, molto di ciò che crediamo di noi stessi quando siamo nello stato di vergogna ci appare come vero, poiché le nostre esperienze sembrano confermare ciò che dicono le voci della vergogna. Ci sentiamo indegni di amore e veniamo rifiutati, ci sentiamo dei codardi e ci vediamo timorosi di prendere qualsiasi rischio, ci sentiamo grassi e andiamo in sovrappeso, sentiamo di non avere niente di valido da dare e ci vediamo continuamente giudicati e criticati. Come venirne fuori, visto che è l’unico modo per essere nuovamente soddisfatti di sé? Come penetrare la menzogna della vergogna? Questa era per me una domanda fondamentale e la risposta che trovai fu la consapevolezza. So che la vergogna è un prodotto della mia mente, condizionata da una cultura repressiva, moralistica, competitiva, materialistica e nemica della vita, è il risultato di un bambino cresciuto in un ambiente che non rispettava il suo essere, costringendolo ad adeguarsi a un mondo strano e insensibile. Il risultato di questo condizionamento è che ci siamo disconnessi dalle nostre qualità ed energie essenziali, perdendo il nostro centro.
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Choc
Durante gli anni della scuola media giocavo in posizione di seconda base nella squadra calcistica di softball. Di fatto ero un buon esterno e un ottimo battitore, ma durante le regolari partite di campionato sbagliavo ogni battuta e mancavo delle palle che per me non avrebbero dovuto rappresentare nessun problema. Accadeva la stessa cosa durante partite di tennis in cui giocavamo contro altre scuole. Più forte era la pressione più facilmente perdevo la testa, come se qualcosa dentro di me smettesse di funzionare e non potessi farci niente. Era un’esperienza che si sarebbe ripetuta in altre situazioni in cui mi sentivo messo sotto pressione, come nel caso di dare esami o, e questo era molto più doloroso, quando facevo l’amore. Fui sorpreso quando, molto più tardi, scoprii che si trattava di un’esperienza di choc.
Lo choc è un’altra pietra miliare nel territorio interiore del bambino emozionale. Nasce da una sensazione così profonda di paura che interrompiamo ogni connessione spesso del tutto incapaci di sentire, pensare, muoverci o parlare. Può sorgere in qualsiasi situazione, in modo improvviso e imprevedibile, la dove si manifesta una pressione, un’aggressione o un dolore, sia pure in una forma apparentemente leggera. In questo caso viene toccato un antico trauma inconscio e smettiamo di “funzionare”, poiché lo choc ha il potere di paralizzare le nostre normali attività in qualsiasi area della nostra vita.
Lo choc ha origine da un trauma, solitamente da un trauma ripetitivo. Per comprenderne la natura possiamo immaginare un piccolo animale intrappolato in un angolo da un predatore, senza nessuna via di fuga e incapace di contrattaccare perché troppo piccolo. Da bambini eravamo come quel piccolo animale: in una situazione in cui eravamo intrappolati il nostro sistema nervoso, costruito per rispondere con l’attacco o la fuga, non aveva a disposizione nessuna di queste due alternative. La sua risposta fu allora di congelarsi, bloccando il sistema energetico corporeo. Quando eravamo bambini, qualsiasi esperienza traumatica era un’esperienza di intrappolamento, un’esperienza che, in una forma o nell’altra, si è ripetuta, dando origine a un profondo stato di congelamento, nascosto dentro di noi ma che può essere fatto riaffiorare in ogni momento. Questo è lo choc. Anche se energeticamente ci distaccavamo da quella situazione di minaccia (è ciò che viene chiamato “dissociazione”) il nostro sistema fisiologico è rimasto scioccato e il ricordo doloroso è rimasto nell’inconscio.
A volte non siamo nemmeno consapevoli di quei traumi ripetitivi, perché avvenuti in un tempo lontano o in forme sottili. Un bambino innocente, aperto e meravigliosamente sensibile percepisce ogni cosa dell’ambiente che lo circonda ed è terrorizzato dalla benché minima energia violenta o invasiva, nervosa o inconsapevole. Siamo nati in una società i cui valori repressivi e competitivi sono totalmente scioccanti. Se consideriamo il modo in cui siamo nati, il modo in cui la maggior parte dei genitori si relazionano e il tipo di vita che conducono, come siamo stati toccati e di quali comportamenti siamo stati testimoni a scuola, allora possiamo cominciare a valutare il peso degli innumerevoli modi in cui abbiamo subito dei traumi. Se a tutto questo aggiungiamo le pressioni, le critiche e le intrusioni e gli abusi da molti subiti nella tarda infanzia, possiamo farci un’idea dello stato di choc.
Lo choc sorge dall’esperienza di qualcosa che assomiglia ai nostri antichi traumi. Una volta un partecipante a un gruppo condivise un’affascinante storia che ci fornisce un buon esempio di come, nella vita quotidiana, possa crearsi una situazione di choc. Raccontò di avere una moglie con una forte tendenza a controllare, per esempio gli vietava di mangiare in macchina perché non voleva sporcare i rivestimenti interni. Un giorno, lui comprò delle ciliegie e si mise a mangiarle in macchina. Lei cominciò a brontolare, ma lui rispose che non sarebbe successo niente perché avrebbe tenuto i noccioli in bocca. A un certo punto si girò verso il finestrino e li sputò… L’unico problema è che si dimenticò di abbassarlo! Questo è quel che succede nello stato di choc: siamo così spaventati che finiamo per dire o fare le cose più stupide.
Sono molte le cose che possono mandarci in stato di choc. Le chiamiamo “cause scatenanti dello choc” (choc triggers) e possono essere di qualsiasi tipo: rabbia, violenza, pressione, critiche e giudizi, espressi in modo verbale o non verbale. Può essere la sensazione di essere controllati o manipolati, o che ci si aspetti qualcosa da noi. Può essere una tensione o una negatività nell’aria, o messaggi confusi. A volte anche solo la minaccia di una di queste cose può bastare. Uno sguardo, il modo in cui qualcuno ci parla o non ci parla, un’inflessione della voce possono essere sufficienti a provocare uno choc. I sintomi dello choc sono diversi per ciascuno: sudore freddo, palpitazioni, estrema agitazione o confusione. Si può essere costantemente in stato di choc, cosa che appare nelle fobie, negli attacchi di panico, nell’agitazione cronica, nei disturbi dell’apprendimento o nelle varie forme di malattia cronica. Possiamo tentare di compensarlo estraniandoci e fantasticando, ma l’esperienza rimane nel corpo. Ho un amico davvero brillante, ma la sua calligrafia sembra quella di un bambino di cinque anni. Quando cominciò a comprendere lo choc gli fu chiaro perché, durante la maggior parte dell’infanzia, soffrì di dislessia.
Come per la vergogna, anche lo choc può essere connesso a differenti aree della nostra vita. Sesso, sentimenti, rabbia, creatività. Ed è difficile dire perché lo choc ci colpisca proprio in certe aree, perché se per la vergogna possiamo identificare i giudizi che sentiamo provenire da noi stessi e dagli altri, per lo choc questo rimane spesso un mistero. Non ho mai chiaramente capito da dove venga il mio choc. Probabilmente da ricordi traumatici profondamente inconsci. Può succedere che mentre facciamo l’amore ci accorgiamo improvvisamente di non essere più presenti o che il nostro corpo non risponde più. Possiamo avere difficoltà a sentire le emozioni e non capirne la ragione. La rabbia, il confronto o il doverci mostrare in un certo modo possono creare panico.
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Principali aree in cui lo choc si manifesta
1. Problemi sessuali: paure irrazionali, ansie di prestazione.
2. Paura del paragone, della rabbia, della punizione, delle critiche.
3. Difficoltà nell’esprimere se stessi e nella creatività.
4. Congelamento delle emozioni.
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In passato credevo che choc e disfunzioni fossero il risultato di traumi estremi ed evidenti, ma non è così. Per il nostro bambino emozionale anche situazioni apparentemente meno forti, come l’essere controllati o manipolati, sono ugualmente traumatiche e capaci di produrre uno choc profondo come per i casi più ovvi di abuso sessuale o fisico. La comprensione di questo fatto, che verifico costantemente nel mio lavoro, è stata importante perché mi ha aperto a una maggiore compassione verso me stesso. Ho anche visto che, come per la vergogna, quando siamo sotto choc siamo identificati col nostro bambino in stato di choc e questo è all’origine del sentirci vittime nelle nostre relazioni con gli altri e col mondo. Inconsciamente vediamo e ci percepiamo come qualcuno di cui abusare, qualcuno che merita di essere abusato. L’identificazione ci porta ad attrarre persone che ci maltratteranno così come lo siamo stati in passato. Se comprendiamo questo, diviene chiaro perché continuiamo a ripetere le stesse esperienze traumatiche. In passato mi succedeva spesso di ritrovarmi con persone più espressive e passionali di me, e questo andava a toccare il mio choc. Oppure attiravo persone che provocavano il mio choc perché mi sentivo controllato, manipolato, messo sotto pressione e criticato e, affinché la cosa non si ripetesse, mettevo in atto strategie davvero creative. Finché, vedendo che niente funzionava, finivo per ritrovarmi a sbattere la testa contro il muro, completamente frustrato. Ma non appena l’identificazione cominciò a svanire, lo stesso accadde per il comportamento.
Quando lo choc viene provocato non c’è nient’altro da fare che riconoscerlo e sentirlo, mentre normalmente ci giudichiamo. Paura e paralisi non hanno certo un gran punteggio nella classifica del “Come si vorrebbe essere”. Ci vergogniamo per essere in stato di choc, con il risultato di creare un insieme di choc e vergogna. Se invece diamo spazio alle nostre paure e al nostro choc, lasciando semplicemente che siano, facciamo un passo molto importante e coraggioso. Metterci sotto pressione per venirne fuori rende solo la situazione ancora peggiore. Ho scoperto che, come per la vergogna, il solo conoscere più profondamente lo choc – come ci fa sentire, cosa lo provoca e da dove proviene – è sufficiente a creare una certa distanza, rendendoci capaci di osservarlo. Questa comprensione mi ha gradualmente permesso di “essere con” lo choc, senza troppi giudizi, ricordando che quando il mio bambino emozionale va in stato di choc, non è ciò che io sono.