Genitori e Figli

Tratto dal libro: “Debellare il senso di colpa.
Contro l’ansia e la sofferenza psichica”,
di Lucio Della Seta, Marsilio Editore, 2005

    “Se ci si mette a osservare un’interazione tra genitore e figlio, ci si accorge che la quantità e la qualità delle sconfitte inflitte all’Io del bambino con le parole e con le azioni, cioè le colpevolizzazioni, eccedono quasi sempre le necessità educative e di salvaguardia. Si potrebbe quasi pensare che se gli interventi dei genitori fossero limitati solo a ciò che è indispensabile all’interesse del bambino, si determinerebbero sensi di colpa momentanei e facilmente dissipabili, invece di condensarsi per accumulo e per intensità in un complesso (che, come tutti i complessi, è un frammento di personalità che si stacca, diventa autonomo e disturba dall’inconscio in cui è caduto).

    Sennonché proprio gli elementi colpevolizzanti stabilizzati nella memoria consentono il controllo a distanza, nello spazio e nel tempo, del comportamento del bambino. E’ inevitabile, quindi, che debba costituirsi un complesso di colpa. Tuttavia l’entità del complesso può essere diversa, a seconda di come i genitori usano il loro potere colpevolizzante. Per ora, per un bambino è questione di fortuna, e così continuerà a essere fino a quando i genitori non diventeranno più consapevoli.

    L’educazione ha il fine di impedire che il bambino subisca danni sia direttamente, facendosi male, sia indirettamente, con un comportamento sociale non appropriato, per cui i genitori sono obbligati a compiere comunque azioni aggressive e punitive colpevolizzanti per imprimere nella memoria del figlio quel ricordo che gli permetta di riconoscere le situazioni di pericolo fisico e sociale, e di affrontarle con un comportamento adeguato.

    Purtroppo, questo metodo di insegnamento delle tecniche di sopravvivenza – il solo che finora conosciamo – è anche doloroso e pieno di pericoli futuri, perché i suoi effetti collaterali permangono dopo l’infanzia, inutilmente e dolorosamente.

    Per cercare di capire cosa accade quando si verifica una di queste azioni aggressive colpevolizzanti dobbiamo sforzarci di metterci nei panni del bambino, identificandoci con le sue sensazioni, per sperimentare il suo vissuto con l’immaginazione e con i residui dei nostri ricordi. Dobbiamo anche ricorrere alle conoscenze sulle caratteristiche e sul funzionamento del sistema nervoso. Azioni aggressive colpiscono molto presto la sensibilità del bambino. Ad esempio, si smette di tenerlo in braccio e lo si lascia piangere un po’ sperando che si addormenti perché non se ne può più, e talvolta si urla insensatamente un “basta”, illudendosi che serva a calmarlo; e così via. Ma è improbabile che tali azioni, pur frustrando l’Io che si va sviluppando, gli inculchino il sentimento della sconfitta e della colpa. Forse ciò può verificarsi solo quando il bambino ha raggiunto un grado sufficiente di coscienza di sé e del suo esistere autonomo.

    Penso, con un esempio di comodo, a un bambino che ha da poco iniziato a parlare e a camminare. Questo bambino non è ancora pienamente consapevole del fatto che esistono le trasgressioni; ha percepito vaghi avvertimenti dall’ambiente, ma il concetto stabile di trasgressione non si è ancora formato. Si potrebbe dire che è ancora nel paradiso, non ha consapevolezza della precarietà e delle separazioni definitive.

    E’ in una fase della vita in cui il suo cervello sta crescendo e viene plasmato in interazione con gli stimoli dell’ambiente, la fase in cui si fissano le emozioni che producono idee, e le idee che producono emozioni. Un giorno questo bambino lascia la mano della madre e corre in mezzo alla strada. E’ inseguito da un urlo, raggiunto da uno schiaffo o da una sculacciata. Ecco il dolore, l’umiliazione, la perdita della sicurezza affettiva perenne, la fine di un mondo di cui avrà nostalgia e che ricercherà abbastanza inutilmente per tutta la vita.

    Per il bambino è uno scoperta totalmente inattesa, sorprendente e devastante, che provoca una tempesta neurovegetativa accompagnata da alterazioni psichiche. Mentre nel suo sistema nervoso si verificano istantaneamente i fenomeni chimici ed elettrici che fissano l’associazione, cioè l’accoppiarsi delle rappresentazioni mentali di lasciare la mano materna con il dolore della punizione. Ciò è proprio quello che la madre, senza saperlo, si propone di ottenere, e così incomincia per il bambino la capacità, indispensabile, di individuare situazioni pericolose che non sembrano tali. Contemporaneamente, però, avvengono dei fenomeni negativi. Se la madre riesce a rimuovere rapidamente la propria angoscia, con l’aggressività che questa comporta, e immediatamente consola e coccola il bambino, e se il bambino ha un tipo di sistema nervoso non troppo sensibile, i fenomeni saranno contenuti. Se invece la madre, trasportata dalla paura, dalla rabbia e, qualche volta dalla stupidità, investe il bambino, che magari ha un tipo di sistema nervoso estremamente vulnerabile, con tutta la violenza di cui è capace, lo picchia, continua a urlare e a insultarlo, mentre lo trascina via, lo svergogna davanti ai presenti, lo priva a lungo di manifestazioni di affetto, si sfoga a casa con il marito in presenza del piccolo, dicendo quanto è stanca di occuparsene, allora i fenomeni negativi produrranno effetti distruttivi.

    Tutte le aggressioni, indipendentemente dalle motivazioni e dalle intenzioni dell’aggressore, provocano nell’aggredito quelle modificazioni del sistema nervoso determinate dai riflessi della paura nelle situazioni di pericolo. In queste situazioni gli uomini, come tutti gli altri mammiferi, dispongono geneticamente di due principali modalità di reazione: attacco o fuga; e il meccanismo della paura prepara l’organismo a questi comportamenti istantanei, come ho già detto in precedenza.

    Nel corpo del bambino che riceve uno schiaffo succedono le stesse cose che succedono nel corpo di una lepre aggredita da un cane o in quello di un cassiere di banca che si trova davanti a una pistola puntata. Il cuore si mette a battere più forte per pompare sangue e dare ossigeno alle strutture e agli organi necessari al combattimento o alla fuga; il respiro, allo stesso tempo, diventa più veloce, la muscolatura si tende, spasmi all’intestino e alla vescica tendono a svuotare l’organismo per alleggerirlo.

    Nel nostro caso vi è anche un aggravante. L’amor proprio del bambino riceve un colpo che viene vissuto come mortale. Questo evento genera una esplosione dell’aggressività primordiale di cui il bambino è dotato geneticamente. Ma questa violenza non può esprimersi, resta in grandissima parte all’interno, e va a sommarsi e a ingigantire gli effetti neurofisiologici della reazione di paura.

    Purtroppo, queste reazioni di paura si verificano, in misura maggiore o minore, anche quando non sarebbero necessari, come nel caso del bambino che aggrediamo ma amiamo, perché la reazione di paura scatta prima che la funzione cosciente possa fare delle distinzioni. Ed è ovvio che un bambino piccolo non è in grado di farle. Devono passare molti anni nella vita di un individuo, e quindi si devono accumulare molte esperienze perché si attutiscano queste reazioni automatiche quando la minaccia non è grave, o è solo apparente.

    Il bambino sperimenta confusione mentale, terrore, rabbia e aggressività, odio, desiderio di vendetta, vergogna intensa, spinta a sottomettersi o a ribellarsi a qualunque prezzo, compresa la morte propria o dell’altro, pur di far cessare queste tensioni quasi insostenibili. Simili emozioni le viviamo tutti per scontri e confronti anche futili. Il trauma che qui ho descritto è un esempio, ma uno o più traumi prodotti da aggressioni genitoriali colpevolizzanti avvengono sempre nella vita di un bambino, contribuendo a costruire il complesso di colpa.

    Il comportamento globale dei genitori, se non c’è consapevolezza e conoscenza, può produrre una serie di microtraumi per piccole o grandi aggressioni fisiche o verbali che creano nel bambino la sensazione profonda di essere irrimediabilmente sbagliato, ed è proprio questa idea, con i suoi mille risvolti, che diventa l’essenza del complesso. Ogni microtrauma va a ingrandire, confermare e ingigantire il complesso legando la sensazione di essere sbagliato alle emozioni e alle reazioni fisiche dei traumi precedenti.

    Insisto su un punto: non solo i genitori disinteressati al benessere del bambino sono dannosi. Anzi, molti genitori contribuiscono a costruire complessi di colpa opprimenti nei figli proprio perché sono tormentati da un’enorme preoccupazione per loro. Una iperprotettività ansiosa determina nel bambino che vede intorno a sé altri bambini più liberi, una sensazione di impotenza, di sfiducia di fondo in se stesso, perché è come se i genitori lo informassero in continuazione che non si fidano della sua capacità di cavarsela da solo.

    Facendo ora un discorso più generale, appare chiaro che le trasgressioni sono infinite, tutte quelle che vengono considerate tali dai genitori, e che si collegano alla loro psicologia, alla loro patologia, e alla cultura in cui vivono.

    Ineluttabilmente, il comportamento ostile dei genitori colpisce l’autostima. E accade poi, nel corso della vita, che una grande quantità di avvenimenti, che soggettivamente temiamo siano lesivi del nostro valore, evochino quella prima risposta psicosomatica in tutto o in parte. Se poi l’autostima è stata nell’infanzia troppo gravemente ferita, allora la sensazione di non valere sarà permanente, e la prima risposta si riprodurrà in continuazione indipendentemente dagli avvenimenti, dando vita all’ansia cronica.

    Purtroppo, i sentimenti di sconfitta dell’Io – sgradevole mescolanza di sensazioni di incapacità essenziale, di vergogna, di rabbia impotente – si verificano anche per le molte altre sconfitte che prima o poi, il bambino sperimenta. Cadute, malattie, prepotenze e aggressioni di altri bambini, insuccessi bel gioco e nella scuola. Anche per questo motivo, è fondamentale che i genitori non siano colpevolizzanti al di là dell’inevitabile. Fra l’altro, i sensi di colpa sono tanto velenosi da rendere permanente una certa carica di ostilità e aggressività verso i genitori, cosicché, in genere, solo dopo la loro morte si possono davvero comprendere davvero, quasi per empatia, alcune loro motivazioni.

    In realtà tutte le aggressioni genitoriali, anche quelle di genitori validi, incidono sul concetto di sé che si sta costruendo nel bambino. Le aggressioni avvengono perché il bambino ha mostrato il suo aspetto negativo: incapacità, ignoranza, stupidità, violenza, egoismo. Per questo, insieme alla reazione di paura, il bambino subisce lo sgretolamento dell’immagine di sé. Vorrei, però, tentare di dissipare una possibile confusione nata dalla difficoltà di rendere chiaro un problema complesso, e della mia ingenua tendenza a pensare che sia in qualche modo possibile, un giorno, allevare i bambini senza senso di colpa. Ho appena detto che le aggressioni genitoriali avvengono perché il bambino ha mostrato qualche suo difetto. Ma quale rapporto c’è realmente tra difetto e colpevolizzazione?

    Tutti i bambini hanno qualche difetto e tutti vengono, più o meno, aggrediti per questo. Però la causa del senso di colpa non è solo l’aggressione educativa o anche solo punitiva; ancor più pesa l’elemento colpevolizzante che vi si associa. E l’elemento colpevolizzante è un a priori contenuto nella psiche del genitore – anch’egli a suo tempo colpevolizzato – che si esprime per sua intrinseca necessità, prendendo talvolta a pretesto le manchevolezze del bambino. Si attiva quando un figlio entra nella nostra vita, probabilmente perché ci sentiamo minacciati dalla responsabilità o dai cambiamenti che la sua presenza comporta. Forse, più o meno inconsciamente, qualche volta gliene vogliamo, e “ci vendichiamo” nei suoi confronti con esagerata aggressività.

    Questo tentativo di chiarimento mi porta a una considerazione molto importante per i suoi risvolti in terapia. Il senso di colpa è senza oggetto. Siccome non nasce da questo o da quel comportamento negativo del bambino, ma dalla “necessità” del genitore di colpevolizzarlo in occasioni diverse, nessuno può mai sapere davvero per quali motivi si senta inadeguato. L’inadeguatezza reale di chiunque consiste in verità solo nel suo sentirsi inadeguato.

    Un adulto può considerarsi sbagliato perché è timido, o perché non riesce nel lavoro, o perché beve, o per tanti altri motivi. Ebbene, il senso di colpa è certamente utile se riesce a cambiare in positivo i suoi comportamenti, ma può anche spostarsi su altre presunte cause, o continuare sotto forma di ansia libera. Al di là delle parole e dei fatti, il genitore colpevolizzante non comunica al figlio che sbaglia in qualcosa, ma che è proprio sbagliato lui. E questa è l’emozione che resta. La mancanza di un oggetto del senso di colpa spiega perché sia così difficile eliminarlo usando argomenti razionali. Chi si disistima ha un nemico inafferrabile. Eppure avere o non avere stima di sé è questione di vita o di morte. La perdita totale dell’autostima, o senso di colpa assoluto, porta al suicidio, se non sempre in senso fisico almeno in senso psicologico.

    Naturalmente i valori, le culture, le caratteristiche individuali sui cui basare l’autostima sono molteplici, per cui non hanno nessuna importanza i motivi per i quali ci si sente o no in colpa. Il benessere globale di un individuo è proporzionale alla sua autostima. Il fatto è che, da bambini come da adulti, alla base dei comportamenti e pensieri di ognuno c’è, onnipresente, l’immagine di sé. La realtà ci pone in una situazione di sfida permanente nei confronti degli altri e delle cose; ma in definitiva si tratta di una sfida nei confronti di noi stessi e delle nostre capacità.

    Le espressioni “sentirsi in pace con se stessi”, “essere in pace con Dio” o “con la propria coscienza”, indicano sia l’assenza di sensi di colpa sia la presenza di una immagine di sé molto positiva. Molte persone parlano bene di sé o addirittura pensano bene di sé pur essendo oppresse dai sensi di colpa, ma questo autoinganno indica solo il conflitto permanente tra l’incubo della sconfitta (cioè della colpa) e il bisogno di stimarsi per sopravvivere. L’essenza vera del nostro dialogo interno, le cose sulle quali dialoghiamo dentro di noi in continuazione nello stato di veglia, contengono il conflitto. E’ come se, senza sapere che lo stiamo facendo, sfogliassimo una margherita inesauribile fatta di petali con su scritto valgo, non valgo, mi posso stimare, non mi posso stimare.

    Gli argomenti che ognuno tratta fra sé e sé sono talvolta poco importanti sul piano della realtà esterna, ma sono sempre importantissimi ai fini dell’autostima. Dalla primissima infanzia – da quando, cioè, incomincia la consapevolezza di se stessi – ci si deve confrontare con questo problema specchiandosi nelle espressioni, negli atteggiamenti e nei comportamenti degli adulti. Solo da loro, infatti, possiamo ricavare la sensazione, acritica e irrazionale, ma fondamentale, di valere, di non valere, di incertezza, di essere adeguati al mondo oppure no. Moltissimi bambini sono costretti a sostenere lotte terribili e disperate con la realtà che li circonda per farsi accettare. Spesso, a causa di malvagie colpevolizzazioni, ne escono sconfitti, così che difficilmente svilupperanno una buona immagine di sé.

    Tutti i bambini, del resto, lottano per l’autostima con maggiore o minor successo. Ma nessuno di loro sfugge del tutto al complesso di colpa. Dopo che si è formato, il complesso di colpa, la cui essenza è la disistima per se stessi, cresce con noi e diventa come un deposito in cui va a immettersi una infinita serie di esperienze negative di ogni genere nel corso della nostra vita.

    Poiché nel complesso di colpa è scritto a lettere di fuoco che se accade qualcosa di male non può dipendere che da noi, non esiste avvenimento negativo – anche totalmente e chiaramente indipendente da noi – che non risvegli il senso di colpa, trasformando il dispiacere, il dolore, la sofferenza in qualcosa di più e di diverso qualitativamente. Forse questa è la ragione principale della nostra infelicità. Non sappiamo come sia la sofferenza allo stato puro; è sempre aumentata e alterata dal senso di colpa.

    L’attività contemplata per eliminare i sensi di colpa può essere ragionevole, assurda, allucinatoria. E’ sempre individuale e soggettiva. E’ irrilevante dal punto di vista dell’emozione che si tratti della meta onnipotente di un paranoico o del desiderio di andare dal parrucchiere per vedersi più belli. La vera meta, l’autostima, è inconscia – anche se con un certo sforzo ognuno può coglierla – e le strade che vi conducono possono essere molto contorte.

    Racconta l’antropologa Ruth Benedict che gli indiani kwakiutl, un’etnia del Nordamerica, accumulavano coperte, pelli, canoe, oggetti di ogni genere e poi li distruggevano pubblicamente. Lo scopo era quello di ottenere considerazione e ammirazione dagli altri, umiliandoli. Una famiglia kwakiutl era all’apice dell’autostima quando dava fuoco alla propria casa con tutti i tesori che conteneva. Questo comportamento, però, se ci si pensa, non è dissimile da quello di qualche personaggio di film americano che si accende il sigaro con un biglietto da cento dollari.

    La necessità di stimarsi e inscindibile da qualsiasi azione, e viceversa. Tant’è vero che un depresso catatonico non agisce più. La psicoterapia e, in larga misura, la psichiatria hanno la funzione di eliminare i sensi di colpa, cioè curare l’autostima.

    E’ varo che chi va dallo psicoanalista o dallo psichiatra crede di star male perché ha disaccordi coniugali, perché non riesce a impedirsi di mangiare troppo, non mangia più, non trova mai l’uomo giusto, ha attacchi di panico al cinema, non riesce a smettere di bere, a dare gli esami, ad avere una vita sessuale e così via. In realtà ogni paziente, a meno che non sia in preda a paure primarie, è alla ricerca di una autostima mai raggiunta, o perduta.

    I neurofarmaci hanno la funzione di mettere a tacere il senso di inadeguatezza influendo sulle variazioni biochimiche che ne sono la causa o l’effetto. Le terapie psicologiche tendono a far emergere e consolidare l’autostima: quelle “direttive” spingendo il paziente ad agire in modo da potersi stimare, quelle “analitiche” cercando di fargli scoprire il suo diritto a vivere senza sentirsi in colpa.”

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