“Gli stadi della meditazione…”

da “Le trasformazioni della coscienza…” di Daniel P. Brown

dal libro “Le trasformazioni della coscienza. Psicologia transpersonale e sviluppo umano”
di Ken Wilber, Jack Engler e Daniel P.Brown. Ubaldini Editore, 1989

Le controversie sugli ‘stadi della meditazione’ si è incentrata di solito su due interrogativi: 1) se si possa dire che tali stadi esistano in una qualche forma oggettiva (ossia, se possiedono validità estrinseca); 2) in che misura se la possiedono, siano interculturali o quasi universali.

Brown ed Engler hanno addotto in altri loro scritti prove sostanziali dell’effettiva ‘realtà’ degli stadi della meditazione – del fatto che essi rappresentano evidenti cambiamenti cognitivi, percettivi e affettivi, che avvengono secondo un modello di sviluppo per stadi.

Daniel Brown si occupa ora del secondo interrogativo, presentando una cartografia approfondita degli stadi della meditazione delineata a partire da tre tradizioni diverse: la Mahamudra tibetana, gli Yogasutra dell’Induismo e la Vipassana theravada (cartografia che è stata poi controllata mediante il raffronto con altri testi contemplativi cristiani, cinesi, ecc.). I risultati ottenuti inducono decisamente a pensare che gli stadi della meditazione abbiano davvero validità interculturale e universale (a un’analisi approfondita, non superficiale).

Questa cartografia non tende soltanto ad avallare le asserzioni più letterarie della “trascendente unità delle religioni”, ma rappresenta un nuovo prezioso ausilio per la soluzione di alcuni sostanziali conflitti fra approcci ‘teistici’ e ‘non teistici’ alla contemplazione (per esempio l’induista contrapposto al buddhista). Spingendo la propria analisi a un livello sufficientemente profondo, Brown è in grado di dimostrare “come i meditanti induisti e buddhisti procedano attraverso gli stessi diciotto stadi di meditazione, eppure abbiano in essi esperienze diverse a causa delle diverse prospettive in cui si pongono. Poiché nella meditazione il “prospettivismo” è inevitabile, come del resto in ogni altro tipo di indagine, ogni descrizione di esperienza meditativa effettuata nelle rispettive tradizioni e ugualmente valida anche se diversa”. Tuttavia la prospettiva influisce sul risultato della progressione delle esperienze: se è simile nelle varie culture la via degli stadi meditativi, non lo è l’esperienza del risultato, l’illuminazione. In questo senso, la conclusione di Brown è l’opposto delle nozioni stereotipe dell’esperienza mistica in cui di solito la philosophia perennis ha visto la ‘trascendente unità delle religioni’: ci sono molti sentieri che portano alla stessa meta. La profonda analisi della meditazione fatta da Brown suggerisce il contrario: c’è un solo sentiero che porta a mete diverse, a diverse esperienze dell’illuminazione.

Introduzione

Un annoso problema nello studio del misticismo comparato riguarda le similarità e le diversità che, attraverso culture e periodi storici assai differenti, appaiono chiaramente fra le varie tradizioni contemplative. Alcuni studiosi hanno sostenuto che le tradizioni contemplative sono diversissime l’una dall’altra e che ciascuna di esse si crea la propria peculiare concezione di una realtà chiamata ultima (von Hugel, 1908; Tucci, 1958). Per altri, tutte le tradizioni contemplative descrivono un’esperienza mistica identica e uno scopo comune (Otto, 1969; Huxley, 1944; Stace, 1960). Alcuni tentano di descrivere l’unica via che consentirebbe di raggiungerlo (Underhill, 1955), mentre altri ritengono che ce ne siano molte, tutte dirette alla stessa meta (Naranjo, 1972) e altri ancora assumono una posizione intermedia e classificano le tradizioni mistiche in più tipi distinti (Zanher, 1957). Ma nonostante l’entusiasmo con il quale lo si affronta, purtroppo il dibattito è lungi dall’essere risolto perché alla maggior parte degli studiosi del misticismo comparato, con l’eccezione dell’opera enciclopedica di Eliade, manca una conoscenza di prima mano delle varie tradizioni contemplative; essi hanno per lo più una grande familiarità con una sola tradizione e una conoscenza superficiale delle altre. Di conseguenza, i raffronti sono spesso riduttivi, come per esempio nell’uso del misticismo cristiano quale pietra di paragone delle tradizioni orientali (Otto, 1932). Storicamente l’unione con Dio, e in genere un’unica dimensione transpersonale, sono state considerate incontestabilmente lo scopo del misticismo, anche quando questi assunti sono in aperta contraddizione con le maggiori tradizioni come il Buddhismo.

Questa esposizione è un altro tentativo di risolvere il problema delle similarità e delle diversità esistenti fra le varie tradizioni contemplative. E’ il risultato di dodici anni di studio di tre tradizioni meditative orientali: lo Yoga dell’Induismo, il Buddhismo theravada e il Buddhismo mahayana. Mi sono sforzato di studiarle nella prospettiva in cui le culture interpretano se stesse. Ciò ha reso necessario l’apprendimento dei linguaggi canonici, la traduzione dei testi classici della meditazione, le interviste a praticanti o maestri contemporanei, e soprattutto la pratica delle tre meditazioni conformemente alle tradizioni di ciascuna. Nel Buddhismo, l’equilibrio di dottrina e pratica è considerato necessario per evitare gli estremi dell’intellettualismo e della pratica della meditazione senza una precisa direzione. 1

Come psicologo occidentale che imparava a tradurre i testi di meditazione dell’Oriente, scoprii anzitutto che le idee dell’Occidente sulla presunta ineffabilità dell’esperienza mistica erano sbagliate. Queste tradizioni, specie il Buddhismo tibetano, sono tradizioni di lignaggio. La società monastica tibetana era organizzata in modo che numerosissimi monaci passassero la maggior parte della vita praticando la meditazione, discutendone la pratica o studiando. E’ un atteggiamento in netto contrasto con quello dei mistici occidentali i quali praticavano spesso isolati dalla comunità spirituale. I tibetani disponevano di un corpo di insegnamenti con i quali il meditante poteva paragonare la propria esperienza meditativa. Queste esperienze erano poi discusse in dibattiti continui. In tradizioni di questo tipo, con una pratica di meditazione organizzata socialmente, si è avuta l’evoluzione di un linguaggio tecnico dell’esperienza meditativa: un linguaggio che è stato perfezionato generazione dopo generazione. I termini tecnici non hanno referenti esterni, come per esempio ‘casa’, ma si riferiscono a stati interni replicabili che possono essere identificati da chiunque si attenga alla stessa pratica, per esempio, ‘correnti di energia’ o ‘meditazioni sul seme’. Come avviene per i linguaggi specialistici della matematica, della chimica o della fisica, il linguaggio tecnico della meditazione è intelligibile soltanto a quei gruppi specializzati di yogin che hanno familiarità con l’esperienza in questione. Per comprenderlo occorrono strumenti specialistici, come quelli che possono essere forniti dalla filologia, dall’ermeneutica e dall’antropologia semiotica.

La mia seconda scoperta fu che le tradizioni della meditazione descrivono per lo più una progressione sistematica dello sviluppo spirituale, cioè un ‘sentiero’. Ci sono due tipi di sentiero: il graduale e il veloce. Il sentiero ‘graduale’ descrive l’esperienza della meditazione come il rivelarsi in una sequenza chiaramente definibile di stadi che culminano nell’illuminazione. Il sentiero ‘improvviso’ non individua stadi netti: l’illuminazione giunge all’improvviso dopo che si è diventati provetti praticanti. La mia esposizione si limita a un raffronto tra vari sentieri di meditazione graduali.

Questo capitolo è quindi una comparazione dei sentieri seguiti in tre tradizioni, ognuna delle quali descrive un modello a stadi per lo sviluppo della meditazione. A scopo illustrativo, ho voluto illustrare per ciascuna di esse i vari stadi ricorrendo a un testo autorevole (e ai principali commenti su di esso). Con il termine ‘autorevole’ mi riferisco ai testi che i praticanti nativi citano quali rappresentanti delle loro tradizioni. Essi sono: il testo dello Yoga induista, gli Yogasutra (Aforismi sullo Yoga) di Patanjali, tradotto dal sanscrito; il testo del Buddhismo theravada, il Visuddhimagga (Il Sentiero della Purificazione) di Buddhaghosa, tradotto dal pali; il testo del Buddhismo mahayana, il principale commento di Bkra’ shis rnam rgyal alla Mahamudra, Nges don … zla zer (Luce lunare sulla Sicura Verità della Mahamudra) tradotto dal tibetano. Il lettore che desideri consultare le traduzioni inglesi di questo materiale può disporre di quelle effettuate, rispettivamente, da Mishra (1963), Nyanamoli (1976) e Brown (1981).

L’indagine metodica dei testi di ogni tradizione ha avuto inizio con l’individuazione dei principali stadi lungo la via della meditazione, come pure dei termini tecnici usati per esprimere le esperienze in ciascuno stadio. Per accrescere l’attendibilità del metodo, mi sono anche servito di commenti autorevoli e di testi collegati. Ciò mi ha aiutato a eliminare l’uso di vocaboli troppo peculiari a favore di un corpo consensuale di termini tecnici, come pure a completare la conoscenza di esperienze descritte troppo brevemente o troppo oscuramente in certi punti dei testi, come negli Yogasutra, in cui un intero stadio della pratica può essere descritto in un unico aforisma. Ne è risultata una descrizione tecnica particolareggiata delle esperienze di ogni stadio della meditazione e dell’intera successione degli stadi per ciascuna tradizione. Ho esposto altrove dettagliatamente questo tipo di approccio (Brown, 1981).

I tre testi – Yogasutra, Visuddhimagga e Mahamudra – sono stati poi messi a confronto sinotticamente, stadio per stadio, al fine di farne emergere un’eventuale sequenza sottostante. Ma ogni tradizione ha suddiviso in modo diverso gli stadi della pratica; l’esame dei lineamenti testuali dei vari stadi si è dimostrato un metodo poco affidabile per la ricerca di una struttura comune. Si è rivelata invece più utile l’analisi accurata del linguaggio tecnico usato in ciascun testo. Questo approccio mi ha consentito di scoprire una struttura sottesa agli stadi di meditazione molto netta e costante in tutte e tre le tradizioni. Si ritiene che la successione degli stadi sia universale, nonostante i modi assai diversi in cui essi sono concettualizzati e descritti nelle varie tradizioni. Si ritiene anche che rappresenti un naturale sviluppo umano, disponibile a chiunque pratichi la meditazione, e che sia invariabile, cioè che nell’esperienza effettiva l’ordine degli stadi sia immutabile. Inoltre è stato anche possibile specificare la natura del risultato finale, l’illuminazione, stando ai modi in cui esso è simile e diverso nelle tre tradizioni.

Queste concordano nel suddividere la pratica della meditazione in tre parti principali: gli esercizi preliminari, le meditazioni di concentrazione e le meditazioni di visione profonda. Secondo l’analisi sinottica usata in questa ricerca, i principali stadi della pratica sono complessivamente sei: due preliminari, due di concentrazione e due di visione profonda. Essi sono: i. Addestramento preliminare etico; ii. Addestramento preliminare mentale/corporeo; iii. Concentrazione con supporto; iv. Concentrazione senza supporto; v. Meditazione di visione profonda ordinaria; vi. Mente straordinaria e illuminazione. Ognuno di questi sei stadi può essere ulteriormente suddiviso in tre sottostadi. Ci sono tre sottostadi per l’addestramento preliminare etico, tre sottostadi per l’addestramento mentale/corporeo, e così via. Se ogni tradizione piò avere un proprio modo di organizzare gli stadi, il metodo sinottico ha comunque scoperto una struttura comune sottesa ai diciotto distinti stadi (6 x 3) la cui successione si rivela invariabile. I risultati sono riportati nella Tavola 4 per gli stadi da i a iv. (La Tavola non è stata trascritta. Può essere consultata sul libro da cui questo brano è tratto.)

Questo modello a stadi porta alla constatazione che, nella meditazione, conoscenza ed esperienza sono legate allo stato (Fischer, 1971). Ciò significa che la struttura della cognizione in ciascuno stato, come pure nella successione degli stati, è specifica soltanto per quello stato e discontinua rispetto a quella degli altri stati. Sotto questo profilo, il mio approccio ha qualche affinità con gli studi di Bourguignon (1965) sulla glossolalia nelle varie culture. Bourguignon è riuscito a dimostrare l’esistenza di una struttura comune sottostante alla glossolalia che si fonda sulla specificità di una trance ipervigile simile sperimentata da locutori di più culture diverse. Se le differenze rimandano a fattori culturali, le somiglianze rimandano alla struttura dello stato di coscienza condiviso. Allo stesso modo, le somiglianze interculturali nel sentiero della meditazione sono dovute alla struttura degli stati di coscienza meditativi; solo che qui abbiamo a che fare non con un solo stato, ma con una progressione di stati meditativi connessi. Quindi, il sentiero fondamentale con i suoi diciotto stadi non viene presentato semplicemente come un altro modello concettuale: può rappresentare qualcosa di insito nella stessa struttura dell’esperienza umana.

Se l’ordine degli stadi è fisso, l’esperienza effettiva di ciascuno stadio varia significativamente nelle tre tradizioni, perché ognuna di esse inserisce nell’addestramento filosofico preliminare un fattore che lo influenza. L’istruzione filosofica alimenta rispettivamente in ciascuna una prospettiva distinta. Questa, a sua volta, influenza l’approccio alla meditazione, ma, quel che più importa, influisce anche sulla natura stessa della meditazione. Questo capitolo dimostrerà come i meditanti induisti o buddhisti, o i seguaci del Buddhismo theravada o mahayana, possano procedere per gli stessi diciotto stadi di meditazione e avere in essi esperienze diverse proprio per le diverse prospettive in cui si trovano. Queste prospettive sono assai più di semplici tendenze concettuali, perché rappresentano qualcosa di intrinseco all’acquisizione delle conoscenza umana. Quindi, poiché il ‘prospettivismo’ è inevitabile nella meditazione, come in ogni altra forma di indagine, tranne forse nel momento iniziale dell’illuminazione, ogni descrizione dell’esperienza meditativa fatta nelle rispettive tradizioni è valida, anche se diversa dalle altre.

Le due prospettive maggiormente divergenti sono, da un lato, la tradizione yogica induista e, dall’altro, le due tradizioni buddhiste. La filosofia dualistica del Samkhya con i suoi assunti materialistici influenza la meditazione induista in un senso; le dottrine buddhiste dell’assenza del Sé e della produzione condizionata la influenzano in un altro. Induisti e buddhisti sono ben consapevoli della diversità della loro esperienza e gli uni ritengono priva di valore quella degli altri. Per esempio, un commento agli Yogasutra (1:32) fa un esplicito riferimento all’esperienza buddhista allo scopo di confutarla. Fra le varie tradizioni di commento i dibattiti sono spesso accalorati. Senza entrare nella complessità dei sistemi filosofici, basti dire che le differenti esperienze possono essere definite nel modo migliore con i termini ekatattva e ksanika. Ekatattva caratterizza la posizione induista e significa letteralmente ‘una stessa sostanza’. Ksanika caratterizza la tradizione buddhista e significa ‘istantaneità’. Questi termini si riferiscono al modo in cui il contenuto mentale è esperito nei vari stadi della meditazione. Per gli induisti, tutte le vicissitudini degli eventi mentali sono manifestazioni della ‘stessa sostanza’. Per i buddhisti, ogni evento osservabile separatamente nel succedersi degli eventi mentali è ‘istantaneo’. Entrambe le tradizioni concordano invece nel ritenere che gli eventi mentali siano soggetti a un cambiamento incessante, la cui natura però esse sperimentano in modo diverso: per gli yogi induisti, gli eventi mentali si dispiegano in forma continua; per il meditante buddhista in forma discontinua.

E’ un dibattito con il quale gli scienziati occidentali hanno dimestichezza. Il paradosso continuità/discontinuità pervade le scienze fisiche e quelle sociali – per esempio, in fisica la teoria dei campi si contrappone alla teoria dei quanti; nelle scienze sociali i modelli continui di diagnosi psichiatrica si contrappongono ai discontinui (Strauss, 1973). L’esempio migliore di questo paradosso continuità/discontinuità ci viene forse dalla ricerca sulla natura della luce. Si presume che la luce sia un fenomeno unitario, eppure la si è descritta come un’onda (continua) o come un fotone simile a una particella (discontinua), e si possono effettuare esperimenti a sostegno di entrambe le posizioni. A seconda del punto di osservazione, questo ‘ondulamento’ unitario appare più simile a un’onda oppure a una particella.

I meditanti non sono esenti dal rapporto fra il punto di osservazione e gli eventi osservabili. Il punto di osservazione, quale che sia, influenza l’effettiva esperienza di meditazione. Ogni tradizione meditativa presenta una diversa teoria del Sé, che influisce sul punto di osservazione assunto durante la meditazione. Come mostrerà questo capitolo, il punto di osservazione riflessivo dello yogi induista influenza gli eventi osservabili sì da farli rivelare come una continua trasformazione del contenuto mentale, mentre la prospettiva concomitante del Buddhismo li influenza in modo da farli apparire come una successione di eventi separati discontinui. Benché si possano individuare nell’Induismo come nel Buddhismo gli stessi diciotto stadi, le vicissitudini del dispiegarsi degli eventi possono essere esperite nella meditazione in forma completamente diversa – come una trasformazione continua o come una successione discontinua – nelle rispettive tradizioni. Quelle che possono passare per differenze culturali nell’espressione linguistica e concettuale dell’esperienza della meditazione possono rappresentare un paradosso insito nella struttura stessa della conoscenza meditativa. Le differenze veramente importanti dell’esperienza effettiva possono essere comprese nei termini del paradosso continuità/discontinuità. Nel prosieguo di questo capitolo esaminerò in maniera più particolareggiata ogni stadio e il paradosso continuità/discontinuità.

Gli stadi della meditazione

Stadio I. Pratiche etiche preliminari

A. I preliminari ordinari: cambiamento di atteggiamento

Le pratiche etiche preliminari riguardano la completa trasformazione psicocomportamentale intesa a preparare il principiante, in un momento successivo, alla meditazione vera e propria. Sono effettuate mentre il novizio continua a vivere la sua vita di tutti i giorni. Siccome i principianti dubitano per lo più della loro capacità di conseguire l’illuminazione, la pratica, almeno nella Mahamudra, comincia con un esercizio per ‘risvegliare la fede’ (M, dad pa’ i ’don pa). I terapeuti comportamentisti, per esempio Bandura (1977), riconoscerebbero anch’essi l’importanza di promuovere il senso della ‘efficacia del Sé’, ossia il convincimento che all’inizio di qualsiasi presagito cambiamento di comportamento si può riuscire a produrre un risultato: in questo caso l’illuminazione. Il principiante, inoltre, deve imparare a cambiare l’atteggiamento verso la vita quotidiana per abbandonare gli attaccamenti mondani e diventare sempre più motivato alla pratica della meditazione. Questo cambiamento può essere sollecitato mediante una serie di ‘preliminari ordinari’ (M, thun mong yin pa), chiamati nella Mahamudra le ‘Quattro Nozioni’ (M, blo bzhi). Il novizio deve innanzitutto riflettere sulla rara e preziosa occasione di trovarsi in una situazione favorevole alla pratica, poi compiere una visualizzazione particolareggiata del proprio comportamento giornaliero e delle sue conseguenze, come pure una visualizzazione della sofferenza sperimentata dai vari esseri nel mondo. Presi nel loro insieme, questi esercizi producono uno stato ipermotivato che pone il novizio in grado di perdere lentamente ogni interesse per le attività quotidiane e di diventare invece fortemente motivato a intraprendere la pratica del dharma. Questo stato ipermotivato è analogo a quello che gli psicologi sociali hanno chiamato di ‘reattanza’ (Brehm, 1972), che si ha quando è minacciata la libertà dell’individuo. Le riflessioni su quest’occasione e sulla morte portano alla rivalutazione delle faccende dello spirito nei confronti di quelle della vita quotidiana e all’intenso desiderio di praticare.

B. I preliminari straordinari: cambiamento intrapsichico

Favorita così questa motivazione, il principiante è in grado di rinunciare alle faccende quotidiane e di ‘penetrare’ (M, ’jug sgo; YS, svadhyaya 2:32). La consapevolezza è ora rivolta al flusso della coscienza tenendo ben presente lo scopo della pratica. La Mahamudra raccomanda reiterate riflessioni formali sullo scopo mediante lo sviluppo di un ‘atteggiamento illuminato’ (M, byang chub sems pa). Negli Yogasutra si istruisce il novizio a ‘stabilire il collegamento’ con la ‘consapevolezza trascendente’, purusa, (YS, samprayogah, 2:44). La riflessione interna sullo scopo è integrata nel comportamento esterno dal rigoroso studio formale dei fondamenti filosofici della pratica. In questo modo egli muta lentamente ma radicalmente aspettative e credenze circa la pratica. Gli psicologi sociali hanno mostrato come le modificazioni delle aspettative personali di risultato e del proprio sistema di credenze abbiano un impatto significativo su qualsiasi tipo di cambiamento del comportamento. Per esempio, Frank (1961) potrebbe interpretare le riflessioni interne e lo studio formale come una manipolazione del proprio ‘sistema di assunti’ e delle proprie ‘aspettative di salute psicologica’, per cui il meditante giunge a credere sempre più che la pratica della meditazione produrrà, con l’illuminazione,cambiamenti d’esperienza positivi e irreversibili. Inoltre, Smith (1976) ha dimostrato che, con la meditazione, le aspettative di risultato influiscono significativamente sui cambiamenti emotivi e comportamentali.

Per prepararsi alla meditazione vera e propria, il principiante deve compiere una radicale trasformazione del flusso della coscienza e dare armonia alla propria vita interiore. Lo si ottiene con una serie di esercizi chiamati ‘preliminari straordinari’ (M, thung mong ma yin pa) nella Mahamudra e ‘prescrizioni’ (YS, niyama) negli Yogasutra (2:40-45). Il flusso della coscienza è composto da vari ‘fattori mentali’ (M, sems ‘byung’; letteralmente ‘ciò che avviene nella mente’). Gli stati affettivi dolorosi, con i pensieri, le immagini e i ricordi che vi sono associati, sono frequentissimi, e ciascuno di essi – dicono gli Yogasutra – contribuisce a creare il dubbio (YS, vitarka, 1:32). Il principiante impara a osservare e a reagire agli eventi del flusso per modificarne il contenuto. Con la ‘confessione’ (M, gshogs pa) o ‘purificazione’ (YS, shaucha, 2:40-41) individua ed estirpa gli stati dolorosi. Attraverso ‘offerte’ concomitanti (M, mchod pa) e perseguendo l’‘appagamento’ (YS, samtosa, 2:42) coltiva attivamente stati piacevoli, per esempio la pazienza. Con la rappresentazione di qualche simbolo della realtà ultima – sia visivamente come nel ‘guru-yoga’ della Mahamudra, sia auditivamente come nel mormorare l’OM nell’ ‘identificazione con Ishvara’ dello Yogasutra (YS, ishvarapranidhanani, 2:45) – egli impara a riformulare i concetti riguardanti la realtà ultima in modo che le ‘nozioni’ spontanee (M, blo) che sopravvengono nel flusso della coscienza siano più in armonia con le credenze filosofiche e con lo scopo ultimo della pratica della meditazione.

Presi nell’insieme, questi esercizi producono un profondo cambiamento intrapsichico. Essi richiamano alla mente quella che in psicologia sociale è chiamata la ‘teoria dell’autoconsapevolezza oggettiva’ (Duval e Wicklund, 1973). La pratica orientale delle prescrizioni e la pratica occidentale della focalizzazione su di sé – e quanto a ciò la psicoanalisi – si fondano entrambi sulla consapevolezza degli eventi nel flusso della coscienza, e hanno entrambe lo scopo di provocare cambiamenti intrapsichici nel fluire dei sentimenti e dei pensieri che l’individuo ha su se stesso. Sono stati compiuti studi di laboratorio su soggetti sottoposti a condizioni che spingono a focalizzarsi su se stessi e richiedono che si diriga l’attenzione interiormente. La prima reazione è una più acuta consapevolezza dell’affetto negativo (Scheir, 1976; Scheir e Carver, 1977). Al di là di queste reazioni negative iniziali, Ickes, Wicklund e Ferris (1973) hanno constatato che durante la focalizzazione su di sé certe condizioni possono accrescere l’affetto positivo. Anche Geller e Shaver (1976) hanno scoperto che la focalizzazione su di sé può modificare le cognizioni che abbiamo su noi stessi. Nella meditazione, la focalizzazione sugli eventi del flusso della coscienza può essere effettuata in modo da estirpare gli stati affettivi dolorosi, coltivare i piacevoli e rendere le proprie associazioni spontanee più adeguate allo scopo ultimo.

C. I preliminari avanzati: cambiamenti del comportamento

Le prescrizioni sono integrate da una serie di pratiche comportamentali chiamate rispettivamente ‘preliminari avanzati’ (M, khyad pa), ‘precetti’ (VM, sila) e divieti (YS, yama). Esse comprendono modificazioni: a) dello stile di vita e del comportamento sociale; b) dell’input sensoriale; c) del grado di consapevolezza. Il principiante impara a individuare il comportamento dannoso e quindi a ‘praticare il comportamento opposto’ (M, stobs bzhi; YS, prati paksabhavanam, 2:33). Per le leggi di causa ed effetto, quest’azione contraria si manifesterà col tempo come una serie di cambiamenti positivi nel flusso della coscienza; il cambiamento di comportamento contribuisce al cambiamento intrapsichico.

Stile di vita e comportamento sociale sono regolati mediante un elenco di precetti principali e secondari destinati a enumerare gli elementi della vita quotidiana al fine di far compiere all’individuo un accurato esame del proprio comportamento: routine e abitudini giornaliere, lavoro e tempo libero, alimentazione e sonno. Le normali attività dell’individuo e anche un eccesso di input sensoriale, scompigliano il flusso della coscienza. Il principiante impara anche a controllare i sensi con un esercizio chiamato ‘controllo dei sensi’ (M, dhang po’ i sgo sdom pa) nella Mahamudra e ‘disciplina del calore interiore’ (YS, tapas) negli Yogasutra. I divieti si concludono con un rigoroso addestramento alla consapevolezza, coltivato sia nella seduta formale (M, dran pa; VM, sati) sia nell’intero corso delle proprie attività giornaliere (M, shes bzhin; VM, samprajanna), allo scopo di conseguire uno stato di consapevolezza ininterrotta per l’intero giorno e l’intera notte.

Da tempo i terapeuti comportamentisti mettono in risalto l’importanza di modificare il comportamento, benché solo la più recente teoria cognitiva comportamentista abbia sottolineato l’esistenza di un qualche nesso fra comportamento esterno e processi interni (Bandura, 1977). Alcuni esponenti della medicina comportamentistica e del biofeedback hanno dato rilievo alla connessione fra attenzione/consapevolezza e processi interni (Green et al., 1970). Le tradizioni della meditazione illustrano le interruzioni fra i tre elementi: realtà interna, comportamento esterno e attenzione/consapevolezza. La teoria comportamentista orientale (asiatica), specie la terapia Morita (Reynolds, 1976), si avvicina alle tradizioni della meditazione nel suo assunto che la regolazione del comportamento esterno con il semplice lavoro può influenzare enormemente la vita interiore. Anche certe terapie occidentali hanno apprezzato il valore dell’attività per lo sviluppo interiore (Erikson, 1976). Poiché la meditazione ha lo scopo di modificare il flusso della coscienza, è necessario un controbilanciamento che dia più ordine alla vita esterna. Se gli eventi del flusso diventano più regolari, è più facile effettuare quell’addestramento alla consapevolezza che è di vitale importanza per la meditazione formale.

Alcuni ricercatori occidentali hanno cominciato a indagare i processi interni dei meditanti alle prime armi. Per esempio, nei principianti aumenta l’assorbimento (Davidson, Goleman e Schwartz, 1976), e diminuisce la distrazione (Van Nuys, 1973). Mentre queste ricerche riguardano la meditazione formale, il concetto di ‘flusso’ di Csckzentmihalyi riguarda la consapevolezza durante l’attività quotidiana. Il flusso si riferisce al fondersi di azione e consapevolezza senza distrarsi dal compito che si sta svolgendo. In condizioni ottimali, il contenuto del flusso è armonioso e cambia per le richieste della realtà senza dar luogo a incongruenze. Raggiunta l’armonia fra comportamento esterno e vita interiore, il novizio è più preparato alla meditazione formale quando vi si aggiunga la consapevolezza.

    Stadio II. Addestramento preliminare del corpo e della mente

    A. Addestramento alla consapevolezza corporea

    Mentre i preliminari avanzati mirano a eliminare le distrazioni nell’addestramento iniziale alla consapevolezza, l’addestramento preliminare corporeo/mentale dirige il training alla consapevolezza più estensivamente verso il foro interiore, sul ‘flusso della coscienza’ (M, rgyun; VM, bhavanga). Il meditante deve ora imparare a individuare con chiarezza nel flusso l‘attività che distrae’ (M, bias ba; YS, vritti), come pure a impedire cadute di consapevolezza. Poiché questo compito comporta l’attenta discriminazione dei vari tipi di distrazione, l’esercizio è chiamato nella Mahamudra i ‘tre isolamenti’ (M, dben gsum). Il meditante isola e specifica la natura dell’attività del flusso in modo da far ordine nel caos.

    Comincia con l’addestramento alla consapevolezza dei processi corporei. Si ritira in un luogo appartato, riduce al minimo i movimenti fisici e adotta una postura stabile. Gli Yogasutra consigliano più posture (YS, asana, 2:46-48); la Mahamudra ne usa una sola, la posizione del loto, ma suggerisce di tenere presenti i sette ‘punti’ (gambe, colonna vertebrale, petto, collo, mani, lingua e occhi). Tanto gli Yogasutra quanto la Mahamudra ne forniscono un modello ideale: rispettivamente la divinità Ishvara e il Buddha cosmico, Vairocana. Perfezionata la postura, il meditante osserva attentamente lo stato del corpo per notare le eventuali imperfezioni della posizione e le attività irrequiete. Scopre ben presto che il corpo emette una costante e disordinata attività interna; essa viene neutralizzata con la costante produzione di attività controllata, ‘mantenendo fermamente’ (M, sgrim ba) la postura perfetta con ‘sforzo’ (M, ‘bad pa). Come risultato la grossolana attività del corpo subisce un cambiamento che la Mahamudra definisce ‘acquietamento’ (M, rang babs, letteralmente ‘caduta in se stesso’) e gli Yogasutra chiamano ‘stabilità’ (YS, sthira, 2:46), con cui diventa facile mantenere a lungo e senza fatica una posizione stabile. L’acquietamento o la stabilità non implicano una cessazione dell’attività corporea, ma, più esattamente, una ridistribuzione dell’attività muscolare in modo che il corpo sia restituito alla sua ‘azione appropriata’ (M, las rung). Ampie ricerche su queste posture (Ikegami, 1970) hanno convalidato l’asserzione dei testi di meditazione: la postura per la meditazione non è tecnicamente rilassante, nel senso di una globale riduzione dell’attività muscolare irregolare, ma stabilizzante, nel senso di una accresciuta regolarità nella distribuzione dell’attività muscolare. Inoltre, la consapevolezza si apre a livelli sottili di attività corporea, avvertita come un fluire nel corpo di correnti di energia. Con la maggiore esperienza, il meditante impara a isolare gli schemi energetici discernibili, che subiscono col tempo un significativo ‘riassetto’ (M, sgrigs pa) in direzione di una maggiore regolarità. Poiché si afferma che queste correnti sono correlate all’attività della mente, l’addestramento alla postura contribuisce anche a creare uno stato mentale più equilibrato, chiamato ‘fermezza’ (M, bstan pa) nella Mahamudra ed ‘equilibrio’ (YS, samapatti, 2:47) negli Yogasutra.

    B. Acquietamento della respirazione e del pensiero

    Con l’acquietarsi del corpo, si acquista una maggiore consapevolezza dell’attività irregolare della respirazione e degli eventi nel flusso della coscienza. Questo disordine nel flusso assume la forma di ‘illusione’ (YS, indrajala, 2:52) del pensiero e dell’attività incessante del dialogo interiore e/o delle fantasticherie (M, ngag). Entrambe le irregolarità della respirazione e del dialogo interiore, sono comprese nel termine tibetano ‘parola’ (M, ngag, dben) nella Mahamudra e ‘controllo del respiro’ (YS, pranayama) negli Yogasutra. Muovendo sia dalla respirazione sia dal dialogo interiore, la meditazione ha lo scopo di isolare i diversi aspetti del ciclo respiratorio e/o del dialogo interiore in modo da diminuire l’attività irregolare o, nell’espressione degli Yogasutra, ‘interromperne il movimento’ (YS, gativicchedah, 2:49). La Mahamudra parte dal dialogo interiore, gli Yogasutra dalla respirazione. La prima dà al meditante l’istruzione di ‘lasciar andare’ (M, lhod pa) ogni sforzo dopo aver avvertito l’acquietarsi del corpo e notare la risultante attività del flusso fino a che non avvenga l’ ‘acquietamento’ (M, rang babs) del dialogo interiore. Allora le chiacchiere mentali e le fantasticherie recedono nello sfondo. I secondi gli prescrivono di interferire attivamente nel ritmo normale della respirazione modificandone la direzione, la durata, la successione, cosa che produce un netto ‘cambiamento’ (YS, vritti) del ciclo respiratorio e del flusso (YS, 2:50).

    Entrambi gli approcci risultano in un’accresciuta regolarità del ciclo respiratorio, un esito convalidato anche da studi empirici sui meditanti (Kasamutsu e Harai, 1966; Wallace, 1970). Altro risultato comune a entrambi è la riduzione del pensiero ordinario, chiamato ‘non cognizione’ (M, mi rtog) nella Mahamudra e ‘distruggere [le cognizioni che creano] la copertura della luce [della consapevolezza]’ (YS, kseeyate prakasa / avaranam, 2:52) negli Yogasutra. Questa asserzione circa la riduzione del pensiero ha avuto una certa convalida empirica da uno studio con il Rorschach effettuato su individui dediti a pratiche di meditazione intensiva, nei quali si è avuta una significativa diminuzione della produttività e del pensiero associativo. Il conseguente maggiore ordine del flusso è il primo equivalente della ‘contemplazione’ (M, bsam gtam, letteralmente l’‘acquietarsi delle riflessioni’).

    C. Riassetto del flusso della coscienza

    Pensiero decostruttivo

    Ora il meditante ha creato un ambiente interiore favorevole alla meditazione ed è in grado di portare la ‘consapevolezza’ (M, rig pa; Ys, sattva) all’attento esame di quest’ambiente. Tuttavia, l’ordinaria consapevolezza cosciente è rivolta verso l’esterno, e il primo compito è lo sviluppo di uno ‘stile’ (M, lugs) di consapevolezza detto ‘introversione’ (M, nang du) nella Mahamudra e ‘ritiro in se stessi’ (YS, pratyahara, 2:54) negli Yogasutra. Il meditante impara a ‘sganciarsi’ (YS, asamprayoge, 2:54) dalla realtà esterna e dall’influenza degli oggetti dei sensi in modo da portare la consapevolezza a rivolgere ogni attenzione al flusso della coscienza. Questo esercizio è quindi chiamato negli Yogasutra ‘ritrazione dei sensi’ (YS, pratyahara). Il meditante impara anche a ‘isolare’ i vari aspetti del flusso e a vedere in che modo si dispieghino gli eventi. Questo esercizio è quindi chiamato nella Mahamudra ‘isolamento della mente’ (M, dben sems).

    Come risultato, il meditante diventa meno sensibile agli eventi esterni e più sensibile agli eventi interiori. In uno studio empirico effettuato partendo da questo assunto, si è rilevato un aumento dell’effetto autocinetico durante la meditazione (Pelletier, 1974). Tale aumento è stato interpretato come un’accresciuta distanza dalla realtà esterna (Mayman e Voth, 1969). Un risultato connesso è che il restante contenuto del flusso della coscienza si fa percepibile: a questo punto, ricordi specifici, anticipazioni di eventi futuri e categorizzazioni di eventi percettivi in atto.

    Ma il risultato più importante, ottenuto con la pratica estensiva, è la dilatazione della coscienza al di là del contenuto agli stessi processi con cui gli eventi compaiono nel flusso. Il contenuto del pensiero viene a cadere. Questa consapevolezza penetrante causa anche un ‘riassetto’ (M, srigs pa) del flusso nel senso di un maggior ordine. Qui però le due tradizioni divergono. Il meditante buddhista impara a discernere la discontinuità del flusso, lo yogi induista la continuità. Le due tradizioni sono però d’accordo nel ritenere che l’esercizio debba principalmente mirare a far discernere la struttura del flusso della coscienza, non il suo contenuto. Il termine tecnico con cui si designa l’esperienza discontinua del meditante buddhista è ‘discontinuità’ (M, spros ba), ossia successione di eventi separati, uno dopo l’altro, con uno iato fra il precedente e il seguente. L’esperienza continua dell’induista è definita tecnicamente ‘cambiamento continuo del materiale mentale’ (YS, chittavritti, 1:1). L’ordinario contenuto della mente si modifica continuamente per prendere la forma dei sempre mutevoli dati sensoriali. Con questo esercizio lo yogi impara a ‘individuare il contenuto mentale nella forma che esso veramente ha [non in quella dei dati dei sensi]’ (YS, 2:54). Ma in entrambe le tradizioni il meditante riesce ad avvertire una sempre maggiore regolarità nell’ambiente interiore, che non subisce più l’influenza immediata dei mutevoli eventi esterni.

    Stadio III. Concentrazione con supporto

    A.1. Concentrazione ‘frontale’

    Il meditante comincia la concentrazione ‘frontale’ (M, mnong du; YS, dharana, 3:1) scegliendo il posto, costruendosi un comodo sedile e adottando una posizione stabile. Poiché la concentrazione ha lo scopo di fissare l’attenzione su qualcosa per periodi di tempo prolungati, si può usare qualsiasi ‘oggetto di consapevolezza’ (M, dmigs pa; VM, nimitta; YS, alambana) che sia tangibile e abbia attributi chiaramente definiti in modo da ‘far da supporto’ (M, rten) alla concentrazione. La Mahamudra si serve principalmente di oggetti visivi, per esempio pietre o pezzi di legno, gli Yogasutra fanno ricorso ai mantra e il Visuddhimagga a vari oggetti (VM, kasina), scelti secondo l’indole personale. L’oggetto viene poi posto ‘fronte’ a una distanza ottimale (VM, mnong du; VM, parikamma; YS, tratakam): la distanza di un giogo nella Mahamudra, o di due braccia e mezzo nel Visuddhimagga. Le tre tradizioni concordano su più elementi fondamentali della pratica della concentrazione. Il controllo dello sguardo, effettuato fissando dritto davanti a sé, nella Mahamudra, o socchiudendo gli occhi, nel Visuddhimagga, riduce l’input sensoriale e quindi anche le manifestazioni del flusso della coscienza. Fissare lo sguardo sugli ‘attributi’ percettivi (M, mtsan ma), per esempio colore e forma, è molto importante (M, sems gzung, letteralmente: ‘attaccare la mente; YS, dharani, ‘tenere saldamente’). Altrettanto importante è sforzarsi di mantenere la concentrazione (M, sgrim ba; YS, dharani).

    Un primo risultato, nella prospettiva del punto di osservazione, è la capacità di sostenere la consapevolezza sempre più a lungo senza cadute di tensione. Dice la Mahamudra: “La consapevolezza sta in parte [sul suo oggetto]” (M, gnas cha). Altro risultato, nella prospettiva degli eventi osservabili, è un cambiamento dell’esperienza dell’oggetto di consapevolezza. Il meditante ne percepisce soltanto i ‘puri e semplici attributi’ (M, mtshan, ma tsam). La categorizzazione (M, rtsis gdab) e il ‘pensiero discriminante’ (M, rtog pa) nei confronti dell’oggetto vengono a cessare.

    Per esempio, se l’oggetto fosse un bastoncino, ne resterebbero soltanto il colore e la forma, senza alcun significato particolare come bastoncino. Nei termini della psicologia cognitivistica occidentale, la concentrazione scardina la normale elaborazione delle informazioni. La fissazione dello sguardo sopprime i movimenti oculari microsaccadici che sono importanti ai fini dell’esplorazione percettiva (Fischer, 1971). E’ anche interrotta la funzione categorizzante dell’elaborazione delle informazioni. Secondo Bruner (1973), la percezione è un atto costruttivo mediante il quale l’informazione percettiva viene ripartita in varie categorie sulla base di tratti fisici definiti particolareggiatamente. Con la categorizzazione si costruiscono modelli del mondo più o meno veridici che “vanno al di là delle informazioni date”. Le categorie simboliche permettono la rapida codificazione delle informazioni anche quando i suggerimenti di stimolo sono minimi, ma la permettono a spese della precisione. Di solito il mondo è ‘visto’ attraverso il filtro di un’ampia rete di categorie astratte. Ma con la concentrazione prolungata il meditante le scardina e ritorna agli effettivi tratti fisici degli oggetti di percezione o, come dicono i testi, ai loro ‘puri e semplici attributi’.

    A.2. Concentrazione ‘interiore’

    La concentrazione ‘frontale’ è un passo preparatorio all’esercizio principale della concentrazione ‘interiore’ (M, nang du). Esso ha lo scopo di addestrare la consapevolezza a ‘restare ferma’ di fronte alle potenziali distrazioni del flusso di coscienza servendosi di un oggetto di consapevolezza interno. Il meditante passa ora alla rappresentazione interna dell’oggetto che prima era esterno. Le tradizioni buddhiste ricorrono a rappresentazioni visive (M, gzugs brnyan, ‘immagine riflessa’; VM, uggahanimitta, ‘immagine eidetica’); gli Yogasutra a una rappresentazione delle correnti di energia sottile nel corpo (YS, dharanachakra, 3:1). La concentrazione ‘interiore’ è praticata sino a quando “non ci sia più alcuna differenza nella visione dell’oggetto di consapevolezza a occhi aperti e a occhi chiusi” (VM, 4:30). Poi, quando riesce a protrarre la concentrazione su questi oggetti interni, il meditante passa a oggetti ancora più dettagliati: l’immagine tipica del Corpo del Tathagata (Buddha) con i suoi trentacinque tratti percettivi maggiori e gli ottanta minori, nella Mahamudra, e, analogamente, l’immagine della divinità Hari, negli Yogasutra (3:1).

    Un primo risultato, nella prospettiva del punto di osservazione, è il raggiungimento da parte del meditante di una condizione di concentrazione ininterrotta che la Mahamudra chiama ‘mente che sta ferma’ (M, sems gnas). Altro risultato, nella prospettiva degli eventi osservabili, è la trasformazione che avviene nel flusso della coscienza. Dapprima, l’oggetto interno domina sempre più il flusso per cui, nelle buone sedute, può essere l’unico evento che si manifesta istante per istante. Poi l’oggetto diventa sempre più instabile. Cambia dimensioni, forma, posizione e luminosità: può diventare, per esempio, grande come il mare o piccolo come un seme di senape. Quella che prima sembrava una rappresentazione interiore fissa è ora percepita come un’immagine in continuo cambiamento. Infine il flusso si ‘riordina’ (M, rten ‘brel byed pa) in modo da accostarsi sempre più all’oggetto di consapevolezza. Se l’immagine è quella del Buddha o di Hari nei loro aspetti tipici, il flusso di coscienza comincia ad accostarsi nel suo manifestarsi a tali aspetti e qualità. Nei termini della psicologia cognitivistica, il meditante destabilizza la costanza dell’oggetto. Anche se non vi sono studi empirici sui cambiamenti che avvengono nella costanza dell’oggetto nel corso della meditazione intensiva di concentrazione, la perdita di tale costanza è stata constatata durante la deprivazione sensoriale (Zubek, 1969) e in condizioni di concentrazione protratta (Hochberg, 1970).

    B. Abilità nel riconoscere il seme: riconoscimento dello schema

    Con il progredire della concentrazione, si ha un profondo mutamento dell’oggetto di consapevolezza. Esso emerge in una forma nuova, chiamata il ‘seme’ (M, thig le; VM, patibhaga; YS, bindu). Gli incontri iniziali con il seme sono impressionanti. Il campo della concentrazione si riduce a un piccolo seme compatto che fluttua nello spazio (VM, 4:31). Sembra anche che il seme emetta una luce propria. Esso contiene informazioni combinate provenienti da ogni sistema sensoriale – tutte le forme, i suoni, i profumi, ecc. Mentre nelle meditazioni precedenti le informazioni provenienti da ciascun sistema sensoriale erano separate, esse non lo sono più nella meditazione sul seme, nella quale si sommano. Il seme contiene le stesse informazioni che provengono dalle molteplici modalità sensoriali indipendentemente dalla natura dell’oggetto che le origina (oggetto visivo o mantra). Contiene anche informazioni su una miriade di sottili attributi percettivi (M, mtshan ma ’phra mo), non discernibile nella percezione ordinaria, nonché su una grande quantità di attributi ‘particolari’ (M, bye brag) e ‘vari’ (M, sna tshog). E’ soggetto a continua trasformazione.

    La natura esatta della trasformazione differisce nel sistema buddhista e induista. Benché entrambi concordino sul fatto che nella consapevolezza il seme va continuamente cambiando, il cambiamento è percepito come discontinuo nel Buddhismo e come continuo nell’Induismo. La Mahamudra descrive il seme (M, thig le) come ‘emanante’ (M, ’char ba’ i thig le) vari eventi percettivi separati. Da esso pulsano in successione specifiche immagini, luci colorate, vibrazioni, fragranze, sensazioni, ecc., con discontinuità nell’emanazione dei vari eventi. Per gli Yogasutra, il seme (YS, bindu) è una ‘incessante trasformazione’ (YS, vritti) di ‘uno stesso continuum’ (YS, ekatanata, 3:2). Immagini, luci, vibrazioni, ecc. continuano a intrecciarsi, come nei disegni di Escher, senza confini discernibili tra gli eventi che si succedono.

    La meditazione sul seme richiede una modifica della natura della concentrazione. Poiché lo sforzo interferisce con gli eventi che si dispiegano dal seme, il meditante riceve l’istruzione di passare a uno stile di concentrazione ‘rilassato’ (M, glod pa). Questo richiede ‘abilità’ (M, rstal), come è chiamato l’esercizio nella Mahamudra. Il passaggio al rilassamento comporta un più chiaro manifestarsi degli eventi, i quali si susseguono in una ‘non cessazione’ (M, ma ’gag pa). Il meditante impara a focalizzare l’attenzione sugli eventi che si dispiegano nel flusso allorché emerge il seme. Quindi l’esercizio è chiamato ‘contemplazione’ (YS, dhyana) negli Yogasutra (3:2). Il termine tecnico per questo particolare aspetto della consapevolezza è ‘riconoscimento’ (M, ngo shes ba, letteralmente ‘conoscere il materiale’; YS, pratyaya, 3:2). Il meditante non fa altro che agevolare la concentrazione e notare quella che la Mahamudra ha chiamato la ‘forza delle emanazioni danzanti’ (M, sgyu ’phrul gar dbang phyug).

    In seguito a questo riconoscimento si stabilisce una nuova condizione del seme detta nella Mahamudra ‘seme condensato’ (M, bsdu ba’ i thig le). Al meditante riesce sempre più difficile riconoscere gli schemi percettivi. Con il crescere dell’abilità questi diventano una ‘massa di luce’ (M, od kyi gong bu). Analogamente, nel Visuddhimagga il patibhaga (leteralmente, ‘segno di somiglianza’) è descritto come un disco luminoso simile alla luna o a una stella, migliaia di volte più puro del ‘ segno eidetico (uggaha)’. Il ‘seme sviluppato’ (VM, sannapatibhaga) non ha né colori né forme particolari (VM, 4:31). Così pure, negli Yogasutra l’emissione di luce con la scomparsa degli schemi specifici contraddistingue l’inizio del successivo gradino della pratica, il samadhi del principiante (YS, 3:3) in cui il seme appare come una gemma preziosa (YS, 1:41). Sulla scomparsa degli specifici schemi tutte le tradizioni concordano. Scompaiono anche gli ‘stati emotivi dolorosi’ (M, nyong mong; YS, klesa). Il meditante non ‘particolarizza’ più (M, yid la byed pa) tali schemi; nella consapevolezza non resta che una mutevole massa di luce. Questo riconoscimento è chiamato ‘grande chiarezza’ (M, gsal bde ba). Poiché l’oggetto non assomiglia più a quello che era in origine, il Visuddhimagga (VM, 4:31) lo chiama ‘semplice modo di apparenza’ o ‘somiglianza’ (VM, 4:31).

    L’esercizio di abilità descrive quello che gli psicologi cognitivisti hanno chiamato il ‘riconoscimento dello schema’, un processo mediante il quale si costruisce uno schema ben definito a partire da informazioni limitate. Secondo le teorie costruttivistiche della percezione, la formazione dello schema è un processo a due stadi. Alla prima sintesi percettiva globale fa seguito la specificazione degli schemi riconoscibili (Hebb, 1949; Allport, 1967; Neisser, 1967). Il meditante osserva questi stadi ala rovescia: nel seme emanante diventa consapevole di una miriade di schemi specifici.

    C. Fermare la mente: sintesi percettiva

    E’ assai difficile mantenere la consapevolezza del seme condensato. Certi particolari schemi possono facilmente ripresentarsi o si può perdere la consapevolezza del seme. Per approfondire la concentrazione, il seme va ‘protetto’ come è chiamato l’esercizio nel Visuddhimagga (VM, 4:34). Il meditante deve ‘eliminare ‘ (M, zad pa) ogni residuo contenuto cognitivo e percettivo che possa provocare la perdita della consapevolezza del seme. Deve ‘fermare la mente’ (M, sems med), com’è chiamato l’esercizio nella Mahamudra. Gli Yogasutra lo chiamano invece il ‘samadhi [del principiante]’ durante il quale “decrescono le grossolane fluttuazioni del materiale mentale” (YS, Kseenavritti, 1:14). Uno dei problemi è che l’oggetto di consapevolezza si fa sempre più sottile. La difficoltà di mantenere la concentrazione ha a che fare con l’ ‘attività’ (M, byas ba) dei sistemi sensoriali. La mente è continuamente attiva nel registrare l’input sensoriale in atto. “La mente vaga fra gli oggetti dei sensi” (M, sems yul la phyan). ‘Si sposta’ (M, ’pho ba) continuamente da un istante dell’input sensoriale all’altro, e quest’attività dà inizio all’intera sequenza dei processi con i quali viene ‘costruito’ (M, bcos pa) il mondo della percezione. Il meditante deve imparare a fermare questa sottile ma costante attività, con la quale sono registrate ed elaborate le impressioni dei sensi, e decostruire l’ordinaria percezione degli schemi. L’esercizio è perciò chiamato ‘arresto della mente’.

    Per fermare la mente occorre sviluppare una semplice consapevolezza vuota di ogni attività. Nella Mahamudra il meditante pone la propria consapevolezza sullo spazio vuoto, reprimendo l’attività con la quale vengono riconosciuti i particolari schemi. Negli Yogasutra sviluppa la consapevolezza in modo che essa ‘rimanga su quello’ (YS, tatsha), ‘penetri in quello’ (YS, tananjanata) e ‘assuma l’identità dell’oggetto’ (YS, samapattita, 1:4) “mentre si fanno cessare le fluttuazioni” (YS, Kseenavritti, 1:41). Se non riesce a sviluppare una consapevolezza libera da attività, si può praticare l’‘esercizio del trattenere il respiro’ (M, bum ba can; YS, kumbhaka). Quando il respiro è trattenuto per intervalli sempre più lunghi, l’attività mentale cessa momentaneamente. Acquisita una certa sensazione di come sia l’arresto della mente, il meditante prosegue nello svolgimento dell’esercizio senza l’aiuto della manipolazione fisiologica.

    Un primo risultato, nella prospettiva del punto di osservazione, è che la consapevolezza diventa ininterrotta, senza più cadute di tensione. La consapevolezza ‘sta continuamente’ (M, gnas ba’ i rgyun) o “sta su quello e penetra in quello” (YS, 1:41). Cessato il contenuto mentale grossolano, nulla più la intralcia. L’altro risultato, dal punto di vista degli eventi osservabili, è che il meditante ‘ha arrestato la mente’ (M, sems med). E’ entrato in uno stato di concentrazione profonda chiamato samadhi. Riesce a mantenere la consapevolezza sulle soglie dei diversi sensi e ad arrestare l’attività di costruzione del contenuto mentale grossolano appena si presenta alla coscienza. Benché possa continuare ad avvertirvi alcuni movimenti alla soglia dei sensi, questi non vengono ‘costruiti’ (M, bcos pa) in chemi percettivi e cognitivi grossolani. Il meditante reprime l’attività alle ‘soglie [sensoriali] che emanano’ (M, ’char sgo). Secondo la Mahamudra, le ‘cognizioni grossolane’ (M, rags rtog) – pensiero, percetti, emozioni – cessano, mentre resta l’attività più ‘sottile’ (M, ’phra rtog). Per gli Yogasutra, l’oggetto di consapevolezza perde la sua forma specifica: è ‘vuoto di forma propria’ (YS, svarupashunyam, 3:3). La consapevolezza si apre al sostrato della percezione ordinaria, ossia a un incessante flusso di luce nel fluire della consapevolezza. Quest’esercizio serve a decostruire quella che gli psicologi della percezione chiamano la ‘sintesi percettiva’ (Hebb, 1949; Neisser, 1967), il più rudimentale stadio della costruzione percettiva prima del riconoscimento dello schema. Così facendo il meditante impara a smantellare il mondo grossolano della percezione e ad arrestare la mente.

    Stadio IV. Concentrazione senza supporto

    A. Tenersi saldi al flusso di luce

    L’esercizio successivo riguarda il modo in cui la yogi potrebbe sviluppare e rendere stabile un nuovo punto di osservazione su una nuova dimensione degli eventi osservabili, ossia il sostrato della percezione ordinaria sperimentato come flusso di luce. Il meditante non può più prendere come oggetto di consapevolezza le cognizioni o le percezioni grossolane. L’oggetto è diventato sempre più ‘sottile’ (M, ’phra rtog; YS, suksmavisaya) e non può fare da supporto alla concentrazione come fa un oggetto grossolano, quale un pensiero o un percetto. Ne derivano gli esercizi che la Mahamudra chiama di ‘concentrazione senza supporto’. Mantenere la consapevolezza su questo sottile flusso di luce richiede una considerevole abilità, quindi il Visuddhimagga parla delle ‘dieci abilità di accesso’. Gli Yogasutra considerano tuttavia il flusso di luce un sottile ma tangibile ‘supporto’ (YS, alambana) alla concentrazione e chiamano gli esercizi ‘samadhi del seme’ (samprajnata).

    L’arresto delle mente per la durata della meditazione non è compito facile a causa della tendenza abituale dei processi cognitivi e percettivi normali, grossolani, a ristabilire le loro operazioni. Il samadhi va depurato dal contenuto grossolano. Secondo la Mahamudra, la mente ha una grande ‘forza’ (M, mthu) per ‘costruire’ (M, bcos pa) eventi grossolani. Un’abitudine del genere può essere persa solo con una meditazione intensiva, sforzandosi di ‘tenersi saldamente’ (M, sgrim ba) in modo che il flusso di luce sia ‘non interrotto’ (M, rgyun mi chad) dal contenuto grossolano. Negli Yogasutra, il vitarkasamadhi è costantemente ostacolato dal ‘grossolano’ (YS, sthula) contenuto della ‘memoria’ (YS, smrti) che può essere ‘riconosciuto’ (YS, pratyaya) di fronte al ‘flusso di luce’ (YS, arthamatranibhasa) ‘vuoto di forma propria’ (YS, svarupashunya iva, 1:43). Questo livello di samadhi è detto nirvitarkasamadhi.

    Secondo la Mahamudra, il meditante è ‘sottilmente addormentato’ (M, bying ba) in questo sostrato della percezione. La consapevolezza del sottile flusso di luce semplicemente non rientra nella coscienza quotidiana; normalmente l’individuo comune non vede il mondo esterno e gli eventi interni nel fluire della coscienza come manifestazioni mutevoli di energia luminosa. Anche la prima volta in cui ne diventa consapevole, questo flusso luminoso continua ad apparirgli indistinto. La chiave per mettersi in sintonia con esso è il livello del risveglio. Poiché tale livello è connesso a una produzione di sforzo, l’iniziale acquisto di padronanza esige un’immensa produzione di sforzo perché lo yogi sia risvegliato alla luce. Il modo di praticare è ‘tenersi saldamente’ (M, sgrim ba) o ‘esercitarsi’ (VM,, 4:51-56; 63) a mantenere la consapevolezza sul flusso di luce. Ogni volta che sopravvengono pensieri o percetti occorre intensificare lo sforzo.

    Nella Mahamudra il risultato, in termini di eventi osservabili, è la maggior chiarezza del flusso di luce. La frequenza delle mutevoli manifestazioni luminose aumenta enormemente, divenendo ‘sempre più veloce’ (M, ’ phral ’phral). Anche l’intensità diventa ‘ più splendente’ (M, dwangs cha). Quando il flusso di luce è completamente chiaro si ha lo stato detto di ‘prechiarezza’ (M, gsal ngar), perché la consapevolezza è tenuta al livello sottile della luce che precede la costruzione del contenuto mentale grossolano. Gli Yogasutra, analogamente, parlano del “risplendere di pura luce vuota di forma propria” (YS, 1:43). Visto dal punto di osservazione, il risultato è il crollo dell’ordinaria rappresentazione di sé. La consapevolezza comune opera mediante un quadro di riferimento stabile, o rappresentazione di sé, che funge da principio organizzatore centrale per l’interpretazione dei dati sensoriali. Questa costruzione si chiama ‘Io’ (M, nga) nella Mahamudra, ‘senso mentale’ (YS, manas) negli Yogasutra. Con l’arresto del contenuto mentale grossolano e il tenersi saldi al sottile flusso di luce, anche la rappresentazione grossolana di sé viene a cadere. La consapevolezza si identifica sempre meno con il contenuto dell’esperienza, grossolano o sottile che sia, e sempre più con l’attività dell’esperienza. Ciò che resta è la consapevolezza del Sé-come-agente.

    B. Lasciar andare per osservare il flusso di luce

    Successivamente il meditante impara a ‘riconoscere’ (M, ngo shes ba; YS, pratyaya) il flusso di luce in maniera stabile e chiara. La stabilità comporta cessazione delle costruzioni cognitive e percettive grossolane che distraggono dalla concentrazione. La chiarezza comporta un più attento discernimento del modo in cui si manifesta il flusso di luce. All’inizio è difficile riconoscere con un minimo di chiarezza il flusso di luce a causa dell’attività, o meglio della reattività, associata alla consapevolezza ordinaria. Pur avendo già estirpato dalla meditazione l’ordinaria rappresentazione di sé, il meditante non ha ancora estirpato il senso ordinario dell’attività del Sé, chiamato ‘agire’ (M, byas ba) nella Mahamudra e ‘Io-agente’ (ahamkara) negli Yogasutra. Questi termini si riferiscono alla consapevolezza di vari tipi di attività durante il samadhi, per esempio ‘dirigere l’attenzione’ (M, sems gtan), ‘rifiutare o sviluppare’ il flusso sottile nella cognizione grossolana (M, dgasgrub) e ‘esercitarsi’ (M, sgrim ba). Sono proprio queste le attività che interferiscono nel riconoscimento e nell’attenta discriminazione del flusso di luce e che ne scompigliano il modo di manifestarsi.

    Il provetto yogi impara a praticare diminuendo la quantità dello sforzo esattamente nei punti giusti del samadhi. Nei sistemi buddhisti l’esercizio viene quindi chiamato ‘lasciar andare’ (M, lhod pa). Lo yogi lascia andare tutte le attività che potrebbero interferire con l’accurata osservazione del flusso di luce.

    Considerando il punto di osservazione, il risultato è la diminuzione del senso dell’agire del Sé. Gli eventi semplicemente ‘accadono da soli’ (M, rang ’byung) indipendenti da ogni attività da parte del meditante. Considerando gli eventi osservabili, il risultato è che il flusso di luce diventa ancora più chiaro e si manifesta in un modo nuovo; come una ‘successione’ (M, rgyun; YS, krama) di manifestazioni luminose che cambiano continuamente. Questi mutevoli punti luminosi si presentano ‘adagio’ (M, cham me) e ‘strettamente vicini’ (M, shig ge). Qualsiasi potenziale interruzione si possa manifestare come contenuto grossolano diventa ‘calma del Sé’ (M, rang zhi). Lo yogi impara a mettere continuamente a fuoco e a riconoscere il sottile flusso di luce e le sue vicissitudini. A causa di quest’analisi più ‘focalizzata’ (M, dpyad pa; YS, vicara) l’esercizio è chiamato vicarasamadhi negli Yogasutra.

    C. Equilibrare il flusso di luce

    La chiave per l’apprensione diretta della verità riposa sull’affinamento della consapevolezza di questo flusso di luce e sull’attento sviluppo di una fra le varie prospettive in cui lo si coglie. Pertanto il Visuddhimagga chiama ‘accesso’ (VM, upacara) quest’esercizio. Con lo svanire degli ordinari punti di osservazione – rappresentazione di Sé e agire del Sé – diventano possibili numerosi punti di osservazione alternativi. Il Buddhismo e lo Yoga induista rappresentano due prospettive molto diverse. Ogni tradizione affina la propria particolare prospettiva in modo che certe verità divengano direttamente accessibili al meditante. Anche il flusso di luce apparirà in maniera diversa visto nelle varie prospettive possibili.

    Lo ‘sviluppo abile’ del flusso di luce, com’è chiamato l’esercizio nel Visuddhimagga, richiede che il meditante compia soltanto la giusta quantità di sforzo nel predisporre il flusso stesso. Questo sforzo è chiamato ‘equilibrato’ (M, btang snyoms; VM, upekka, 4:64), dal nome dato all’esercizio nella Mahamudra. Il meditante deve anche imparare a dar ‘peso’, durante il samadhi, a un particolare punto di osservazione o evento osservabile.

    Mentre può essere ‘generalmente consapevole’ (M, rtog pa; YS, vicara) del punto di osservazione e contemporaneamente dell’evento osservabile, il meditante impara la ‘specifica messa a fuoco’ (M, dpyad pa; YS, vicara) di entrambi durante il samdhi e anche a spostarne il peso dall’uno all’altro. Questi spostamenti avvengono con grande rapidità, più veloci del tempo ordinariamente occorrente per prestarvi attenzione.

    Il buddhista impara ad acquisire un punto di osservazione chiamato ‘consapevolezza concomitante’ dal quale il flusso di luce appare discontinuo. Il meditante sviluppa abilmente l’evento osservabile, il flusso luminoso, esaminando accuratamente la luce fino a renderne ‘discontinue’ (M, val le) le vicissitudini, come pulsazioni o ‘movimenti’ (M, gyu ba) inframmezzati da cesure. I lampi compaiono ‘vicinissimi l’uno all’altro’ (M, shig ge), sono cioè emessi in rapida successione. L’abilità di acquisire il giusto punto di osservazione viene dallo spostamento della specifica messa a fuoco sulla consapevolezza che ‘sta’ (M, gnas ba) su ciascun evento distinto. Ripiegandosi su se stessa, anche la consapevolezza diventa sempre più discontinua. L’esperienza discontinua sia del flusso di luce sia della consapevolezza che se ne ha è chiamata ‘concomitanza’ (M, lhan ne) nella Mahamudra e ‘mente/materia’ (namarupa) nel Visuddhimagga.

    Lo yogi induista impara a sviluppare un punto di osservazione chiamato ‘consapevolezza riflessiva’ dal quale il flusso di luce appare continuo. Affinato dallo yogi, l’evento osservabile, il flusso di luce, comincia a manifestarsi sempre più come un campo di energia in incessante vibrazione chiamato tanmantra (letteralmente ‘le coordinate del precedente contenuto grossolano’), che si trova in stato di propagazione continua. La consapevolezza è in grado di distinguere i punti percepibili che appaiono in questo campo in costante trasformazione. L’abile sviluppo del punto di osservazione deriva dal distogliere la consapevolezza dai punti percepibili che appaiono nel campo di energia in vibrazione, indirizzandola verso la ‘consapevolezza eterna’ (YS, purusa) che trascende tutti gli stati della materia. L’esercizio prende quindi il nome di nirvicarasamadhi, in quanto si abbandona completamente una specifica messa a fuoco degli eventi in favore della consapevolezza che pervade l’universo intero. Questa nuova prospettiva di osservazione è chiamata ‘consapevolezza riflessiva’ (YS, buddhi) poiché è in grado di unire i più sottili eventi della mente alla consapevolezza eterna che pervade l’universo. Dicono gli Yogasutra: “Quando si fa esperienza del nirvicarasamadhi, si trascende il punto di osservazione e si acquietano gli eventi osservabili” (1:47).

    I testi di meditazione suggeriscono una fenomenologia per gli stadi iniziali di elaborazione delle informazioni. Secondo le teorie costruttivistiche della percezione occidentale, il riconoscimento dello schema avviene per discriminazione delle fluttuazioni temporali entro gli stimoli in arrivo (Neisser, 1967). Un esempio di questa concezione, in particolare la ‘teoria olonoma della percezione’ di Pribram, avanza l’ipotesi che la percezione sia costruita non già nei termini degli aspetti assunti dall’oggetto nel mondo fisico, bensì con il trasferimento di questi aspetti in schemi temporali (luce e suono). Le informazioni vengono elaborate discriminando le differenze degli schemi di interferenza causate dalle fluttuazioni delle frequenze nel corso del tempo, e gli effetti si manifestano come immagini del mondo: un po’ come avviene nell’olografia (Pribram, 1974). Pribram fa anche notare che nella percezione olonoma la questione del punto di osservazione diventa problematica, come avviene per i testi di meditazione.

    Sentieri ramificati: gli assorbimenti e i poteri psichici iniziali

    In questo stadio diventano disponibili certi sentieri ramificati, in larga misura a causa della decostruzione del punto di osservazione ordinario e della riduzione degli eventi osservabili al sostrato stesso della percezione. E’ possibile, anzitutto, continuare la concentrazione in modo che perfino la consapevolezza generale e la specifica messa a fuoco vengano meno; il meditante imbocca un altro sentiero chiamato rispettivamente; la ‘grande meditazione sul seme’(M, thig le chen po), gli ‘assorbimenti’ (VM, appana) e il ‘ricoscimento degli stati dell’essere’ (YS, bhavapratyaya, 1:19). Secondo il Visuddhimagga, ci sono otto assorbimenti: i primi quattro sono ‘samadhi con forma’ (rupa), i secondi quattro ‘samadhi senza forma’ (arupa). In secondo luogo, in tutte le tradizioni si riconoscono esperienze spontanee di ‘poteri psichici’ (M,mngon shes), per esempio, rispettivamente: i Dieci Segni dell’Abilità, i due capitoli sui poteri psichici (VM,, 12-13) e la padronanza della realtà fisica (YS, 1:40). Queste esperienze iniziali sono instabili perché lo yogi non ha ancora estirpato gli ostacoli. L’esperienza stabile dei poteri psichici ricompare alla conclusione del V stadio, lo stadio che si occupa dell’abolizione degli ostacoli.

    Stadio V. Meditazione di visione profonda

    A. Conseguire la visione

    Con la percezione del modo in cui gli eventi si manifestano nel flusso e con il nuovo punto di osservazione, il meditante è ora giunto a uno stadio che gli consente di intuire come sono costruiti il modo dell’esperienza ordinaria e il Sé attraverso una nuova serie di meditazioni dette Meditazioni di Visione Profonda. Pur nella significativa differenza della visione nelle varie tradizioni, tutte e tre partono dall’analisi dettagliata del flusso di luce e sono concordi nel ritenere sbagliata la percezione iniziale che il meditante ha del modo in cui esso si presenta. L’abituale non veridicità della percezione ordinaria è basata su sottili fattori condizionanti, detti ‘inclinazioni’ (M, bag chags) o ‘impressioni’ (YS, samskara), insiti nella struttura stesa della percezione al suo livello fondamentale. La meditazione di visione profonda ha lo scopo di eliminarli e di correggere il modo in cui il meditante vede il fluire degli eventi, affinché la loro successione subisca una significativa trasformazione senza più influenza. Ecco perché l’esercizio iniziale è chiamato ‘conseguire la visione’ (M, lta ba; VM, ditthi visuddhi) nelle tradizioni buddhiste. Poiché la visione profonda porta al samadhi ‘senza i sottili semi del condizionamento’, gli Yogasutra (1:15) lo chiamano ‘samadhi senza seme’.

    La meditazione di visione profonda è un’analisi ad alta velocità del flusso che si manifesta nel tempo come una ‘successione’ di movimenti discontinui o continui (M, rgyun; VM, bhavanga; YS, krama). Persino in un breve intervallo di meditazione possono aver luogo migliaia di movimenti di questo tipo. Il meditante effettua l’ ‘analisi di ciascun movimento’ (M, so sor rtog pa) che avviene così rapidamente da passare inosservato nella percezione ordinaria. Il flusso muta continuamente. Per spiegare questi sottili cambiamenti si introducono nuovi termini: i buddhisti considerano la discontinuità del cambiamento ‘qualsiasi cosa insorga [separatamente]’ (M, gang shar); gli yogi induisti la continuità nella ‘trasformazione’ (YS, parinama) del campo di energia.

    Ciascuna tradizione rende espliciti i propri condizionamenti circa il modo in cui si può osservare il flusso mediante l’addestramento filosofico preparatorio seguito dalla pratica del samadhi. Queste due fasi della pratica si chiamano nella Mahamudra ‘meditazione investigativa’ (M, dpyad sgom) e ‘meditazione del samadhi’ (M, jog sgom). La prima è un riesame dei principi basilari del Buddhismo mahayana. I capitoli dal 14° al 17° del Visuddhimagga e 1° degli Yogasutra presentano le loro rispettive posizioni filosofiche. Benché diversa nelle varie tradizioni, questa ‘comprensione intellettuale’ preparatoria (M, go ba) serve di guida alla successiva pratica del samadhi. Iniziando il samdhi viene meno la comprensione cognitiva grossolana, ma la sua impressione persiste sotto forma di ‘categoria singola’ (M, rtog gcig) e ha ‘influenza’ (M, dbang) sul samadhi stesso. Con questa categoria può essere posto a raffronto qualsiasi cambiamento del flusso di luce. Nella Mahamudra questo tipo di approccio è chiamato ‘compito di ricerca’ (rtshol ba). A meno che il samadhi non sia orientato con questa categoria, non può esserci visione profonda. La categoria di visione profonda usata inizialmente nel compito di ricerca è diversa in ciascuna tradizione rispettivamente: ‘non entità’ (M, ngo bo nyid med), ‘produzione condizionata’ (VM, pratityasamutpada) e ‘identità’ (YS, tulya) o ‘modificazione (YS, parinama).

    Se ogni tradizione ha un diverso modo di vedere, ciascuna però corregge le inclinazioni percettive con una progressione della visione profonda che presenta stadi identici per tutte. C’è dapprima una fase preliminare per stabilire il livello ottimale di samadhi e la visione giusta secondo la categoria. Segue un’esaustiva ricerca seriale di ogni istante per constatarne l’adeguamento alla visione profonda della categoria. Infine il meditante è in grado di riconoscere una profonda trasformazione nel modo in cui gli eventi si manifestano nel flusso. Si hanno questi stessi tre stadi per la ‘specifica messa a fuoco’ (M, dpyad pa; YS, vicara, 1:17) dell’evento osservabile e del punto di osservazione. Le due prospettive sono chiamate, nelle rispettive tradizioni, ‘Vacuità della Persona e dei Fenomeni’ e ‘conoscenza del corpo e della mente’ (M, namarupa), e ‘riconoscimento dei mezzi [per la consapevolezza riflessiva]’ (YS, upayapratyaya, 1.20) e ‘degli stati della materia (YS, bhavapratyaya, 1:19).

    Nella Mahamudra il meditante comincia con una meditazione investigativa della Vacuità della Persona. Studia le scritture autorevoli sulla vacuità e ne applica quindi le nozioni all’esperienza del proprio Sé sino a giungere alla conclusione che il Sé è una ‘non-entità’ (M, ngo bo nyid med) in quanto non lo si può identificare nell’esperienza immediata. Torna allora a un livello di samadhi in cui avvengono pulsazioni luminose distinte con i concomitanti distinti momenti di consapevolezza. Il primo passo è ‘mettere in ordine la [visione della] mente’ (M, sems gtan la phebs) inserendo nel samadhi la non-entità come una categoria della visione profonda. Il secondo passo consiste nel raffronto ripetuto di ogni momento di consapevolezza con tale categoria per ‘indurre la visione profonda’ (M, skabs su bab pa’i lhag mthong). Il passo finale è quello in cui il meditante ‘giunge al limite dell’analisi’ (M, dpyad pa ’i mthar) e il flusso di luce subisce un profondo riassetto (M, gtan la phebs). La radice dell’inclinazione percettiva ‘è recisa’ (M, rta bcod). Questo punto di osservazione non sostanziale e momentaneo, chiamato la ‘consapevolezza stessa’ (M, rang rig), sostituisce ogni [condizionata] rappresentazione mentale’ (M, sems dmigs) come punto di osservazione. Il meditante ripete poi gli stessi passi nella prospettiva degli eventi osservabili per ottenere la Vacuità dei Fenomeni.

    Anche il Visuddhmagga comincia con una serie di riflessioni filosofiche (dal 14° al 17° capitolo) che descrivono gli aggregati, i sistemi sensoriali, ecc., secondo la psicologia buddhista. La descrizione più importante riguarda la produzione condizionata. Comprese queste riflessioni, il meditante torna al samadhi e osserva gli eventi distinti da ciascuna delle due prospettive concomitanti: l’evento osservato (VM, rupa) e il punto di osservazione (VM, nama), ‘mente e materia’ (VM, 18:39). Prendendo come prospettiva il punto di osservazione, effettua un’accurata ricerca de ‘supporto’ per la consapevolezza momentanea della mente, come ‘seguendo un serpente verso la sua casa [del serpente]’ (VM, 18:4). Non trova altro supporto che l’evento distinto. Ogni distinto istante di consapevolezza (nama) ha solo il supporto dell’evento distinto (rupa) concomitante. Prendendo come prospettiva l’evento osservabile, si arriva a una conclusione simile: il livello mentale e il livello materiale sono interdipendenti.

    Anche gli Yogasutra cominciano con un particolareggiata interpretazione della filosofia Samkhya dualista (capitolo 1°). Osservati nell’attività del materiale mentale in meditazione, i fenomeni del mondo fisico (YS, prakrti) appaiono in continuo cambiamento, mentre il ‘Sé trascendente’ (YA, purusa) è immutabile. Lo yogi giunge alla comprensione intellettuale del dualismo tra prakrti e purusa e l’applica all’esperienza del samadhi. Entra in un samadhi senza seme in cui restano le sole impressioni, non il contenuto grossolano. Usa la categoria dell’ ‘identità’ (YS, tulya) con la quale raffrontare i continui mutamenti del campo di energia. All’insorgere del samadhi osserverà probabilmente le ‘manifestazioni apparenti’ (YS, pradurbhava) e le ‘non-manifestazioni’ (YS, abhibhava), cioè schemi percettivi in un campo di incessante mutamento. L’uso della categoria dell’identità durante la ‘pratica costante’ (YS, abhyaspurva, 1:18) dà luogo a una modificazione del campo di energia chiamata ‘trasformazione nella cessazione’ (nirodhaparinama, 3:9). Per qualche momento cessa la trasformazione degli specifici schemi ondulatori e il materiale mentale giunge a una condizione ancora più affinata. Sono estirpate le impressioni condizionanti. Questi momenti di cessazione lasciano le proprie impressioni, le quali influiscono poi sull’esperienza del campo di energia in continuo mutamento. Esso è ora un ‘quieto flusso’ (YS, prashantavihiti, 3:10) in cui gli schemi ondulatori diventano meno appariscenti. Questo quieto flusso è il ‘mezzo (YS, upaya) per la comprensione’. C’è stato un importante spostamento di accento: la consapevolezza si allontana dagli eventi osservabili per rivolgersi verso il trascendente, perciò viene chiamata ‘consapevolezza riflessiva’ (YS, buddhi).

    La ricerca su ogni singolo istante durante la meditazione è analoga agli studi sperimentali compiuti in Occidente sull’elaborazione ultrarapida delle informazioni, effettuati su ampia scala con l’uso del tachistoscopio (T-scope). Il Tachistoscopio è uno strumento con cui si possono presentare ai soggetti, in laboratorio, singole figure visive in successione rapidissima – dell’ordine di millesimi di secondo -, assai più velocemente quindi di quanto non riesca a seguirle l’attenzione (Neisser, 1967). Lo si è usato per studiare di che cosa riescano ad avere consapevolezza gli esseri umani al livello che precede l’attenzione cosciente. C’è un’impressionante convergenza di scoperte sulle operazioni principali della percezione ottenute con approcci così diversi quali le osservazioni oggettive con il tachistoscopio e l’introspezione yogica. Per lo più, i ricercatori al tachistoscopio concordano sul carattere temporale della struttura che sta alla base della percezione visiva. La mente umana risolve gli stimoli in quanti di energia che riordina in una successione temporale. Gli schemi percettivi complessi, le immagini del mondo, sono costruiti dall’interazione dell’energia dei quanti (Eriksen, 1967) e delle diverse frequenze in successione (Pribram, 1974). Forse non è un caso che gli esperti del tachistoscopio avanzino concetti quali la ‘natura temporale della percezione visiva’ e il ‘momento psicologico’ (Eriksen, 1967), paragonabili ai termini yogivi che designano la ‘successione’ (M, spros ba; VM, bhavanga; YS, krama) e il ‘momento’ (M, ’byung ba; YS, ksana). I testi di meditazione forniscono una fenomenologia per una simile percezione.

    Il tachistoscopio è stato impiegato in compiti di ricerca ultrarapida (Sternberg, 1966), in cui si presenta al soggetto uno stimolo molto al di sopra della soglia. Questo stimolo entra ‘in memoria’ perché il soggetto lo codifica nella memoria a breve termine e se ne serve come orientamento per l’imminente compito di ricerca. Si proietta poi a grandissima velocità una serie di singoli stimoli e il soggetto tenta di ‘indovinare’ se in essa sia contenuto lo stimolo originario codificato nella memoria. Così, se la lettera ‘X’ è in memoria, la serie degli stimoli che seguono può contenere lettere diverse, ‘A, C, Y T’, ecc. Alcune serie possono contenere la lettera-bersaglio ‘X’, altre no. Questi esperimenti di laboratorio hanno mostrato che i soggetti hanno percezioni esatte ed elaborano le informazioni a velocità elevatissima, prima ancora di dedicarvisi consciamente. Anche l’esercizio migliora l’elaborazione delle informazioni. Lo yogi che effettua meditazioni di visione profonda fa ciò che i ricercatori al tachistoscopio hanno chiamato un compito di ricerca ultrarapida. Le categorie della visione profonda – la non-entità, la produzione condizionata, l’identità-nel-cambiamento – sono una specie di ‘dotazione’ della memoria. Lo yogi effettua la ricerca di ogni istante del flusso della luce per vedere se collimi con la categoria originaria. Esamina in piena consapevolezza gli eventi che passano con estrema rapidità, e che l’attenzione ordinaria non riesce a cogliere, e continua questa ricerca ultrarapida per conoscere la struttura e le operazioni della percezione, e rimuoverne le influenze sulla percezione ordinaria.

    B. Abilità: Samadhi inverso

    A causa del riassetto del sostrato stesso della percezione temporale, non è più necessario mantenere il samadhi a un livello così affinato in cui sia osservabile solo il sottile flusso di luce. Nella Mahamudra l’esercizio è chiamato ‘abilità’ (M, rstal) o ‘samadhi inverso’ (M, zlog pa ’i sgom pa) perché il meditante cerca di mantenere le visioni profonde di nuova acquisizione, non più influenzabili, nel mezzo del contenuto mentale grossolano – pensieri, sentimenti, sensazioni e percetti. Il samadhi inverso è caratterizzato dal ritorno di questi grossolani eventi mentali. Il meditante, che ha ormai familiarità con la vacuità, può ‘lasciar andare’ (M, lhod pa) lo sforzo e rivolgere la consapevolezza a ‘tutto ciò che si presenta’ (M, gang shar), ossia ai ‘vari’ (M, sna thsogs) eventi in rapida successione. Anche il Visuddhimagga menziona gli eventi mentali grossolani, specie le varie e dolorose sensazioni e immagini visive comuni a questo samadhi. Per gli Yogasutra occorre che lo yogi mantenga una ‘consapevolezza riflessiva’ (YS, buddhi) durante la ‘molteplicità delle cose’ (YS, sarvarthata), ossia i vari eventi del mondo fenomenico.

    Si tratta ancora di un compito di ricerca ultrarapida, reso più difficile dal nuovo tipo di eventi complessi: Un problema che si incontra tipicamente è il venire meno della visione profonda quando il meditante è distratto dall’improvviso aumento del contenuto mentale grossolano. Egli deve imparare a mantenerla stabile nonostante i radicali cambiamenti degli eventi osservabili durante il samadhi. Quale che sia la prospettiva – non-entità, produzione condizionata, identità – deve imparare a mettere a confronto i vari eventi grossolani, che compaiono in rapida successione, con la rispettiva categoria. E’ prevedibile che compaiano anche le stesse rispettive visioni profonde. Poiché esse si rivelano in un nuovo contesto, i biddhisti chiamano questo samadhi ‘superamento del dubbio’ o ‘abilità’. Gli Yogasutra lo chiamano ‘la trasformazione del samadhi’ (YS, samadhi parinama) per la grande stabilità del samadhi che si ottiene (YS, 3:11). Mentre ricorrono gli ordinari eventi mentali, la visione profonda resta la stessa: rispettivamente la vacuità, l’assenza del Sé e l’identità-nel-cambiamento. Queste visioni diventano esperienze dirette incorporate nella struttura stessa della percezione sia a livello grossolano sia a livello sottile.

    Il protrarsi dell’esperienza del samadhi inverso produce ulteriori abilità, come la continuazione automatica della consapevolezza e la capacità di ripartirla contemporaneamente fra più tipi di eventi. Oltre a concentrarsi sul contenuto, il meditante si rende anche conto del processo con il quale gli eventi compaiono e scompaiono nell’esperienza immediata. Secondo la Mahamudra ci sono più stadi di sviluppo. Dapprima il meditante è consapevole soltanto dell’istante esatto in cui avviene l’impatto di ciascun evento prima di elaborarlo come contenuto grossolano: pensieri, percetti, ecc. L’ulteriore esperienza porta a discernere l’intera durata di ciascun evento, ossia a rendersi conto dell’istante in cui esso si presenta, della sua breve durata e dell’istante in cui scompare dalla consapevolezza. Questa conoscenza di ogni evento che si succede, di cui parla anche il Visuddhimagga, si chiama ‘chiara comprensione’ (VM, 20:1-92). Infine diventa chiarissimo l’istante esatto in cui l’evento ha origine e quello in cui scompare, mentre si perde la consapevolezza del passo intermedio, cioè della sua durata. E’ quindi difficile discernere la natura del contenuto. Ogni istante sfreccia con estrema rapidità, immerso in un’intensa luce bianca. Questo stadio finale è chiamato ‘andare e venire’ nella Mahmudra e ‘sorgere e scomparire’ nel Visuddhimagga (VM, 20:93-130) per il lampeggiare della luce a ogni istante. Gli Yogasutra lo chiamano lo stadio della ‘trasformazione nella focalizzazione su un solo punto’ (YS, ekagrataparinama, 3:12). Entrambi comportano una luce intensa, ma l’esperienza discontinua dei buddhisti è simile al rapido pulsare di uno stroboscopio, mentre l’esperienza continua degli induisti è come un susseguirsi di colpi di gong talmente rapido da dare l’impressione che l’uno sfumi nell’altro in un’unica vibrazione continua.

    Per capire il samadhi inverso ci si può servire dello studio di Schneider e Shiffrin (1977) sulla ricerca ultrarapida al tachistoscopio. La loro opera pone a confronto le prestazioni dei soggetti durante questo tipo di ricerca effettuata con più serie di stimoli sperimentali uguali e diversi rispetto all’originaria ‘dotazione’ della memoria. Per esempio, se una lettera ‘X’ era ‘in memoria’, la ricerca poteva aver luogo quando le serie degli stimoli proiettati ad altissima velocità, contenevano tutte lettere o tutti numeri, e alcune contenevano anche la lettera-bersaglio ‘X’. I soggetti imparano la ricerca ultrarapida quando la ‘dotazione’ della memoria e la struttura della ricerca stessa sono di eguale categoria (tutte lettere). Una ricerca del genere richiede uno sforzo prolungato e durante l’apprendimento la capacità di attenzione è limitata. L’esercizio si chiama ‘ricerca controllata’. I soggetti normali, in queste condizioni, migliorano la giustezza e la velocità dell’elaborazione delle informazioni solo dopo migliaia di tentativi, in seguito ai quali l’elaborazione avviene con modalità diverse ed è chiamata ‘rilevazione automatica’. Essi riescono allora a effettuare senza sforzo una ricerca ultrarapida esatta anche quando la ‘dotazione’ della memoria e le strutture di ricerca appartengono a categorie diverse (lettere, numeri). Riescono inoltre a suddividere contemporaneamente l’attenzione fra più stimoli.

    Come i normali soggetti di laboratorio, anche i meditanti nel samadhi riescono a imparare la ricerca ultrarapida. Nell’apprendere la visione profonda si servono di categorie uguali (non-entità o identità contrapposte al contenuto mentale grossolano). Come avviene negli esperimenti con il tachistoscopio, la visione profonda diventa automatica. Lo yogi impara inoltre a suddividere la consapevolezza fra il contenuto mentale grossolano e il processo con il quale esso si presenta durante la ricerca. Ne risulta un cambiamento nella percezione della durata degli eventi. Dovrebbe esserci un aumento della luminosità, per la legge di Bloch secondo la quale c’è una relazione inversa fra la percezione della durata e quella della luminosità. La luce bianca che compare a questo stadio della pratica è prevista stando alla ricerca sulla percezione.

    C. Samadhi del sorgere e dello scomparire

    Il samadhi del sorgere e dello scomparire è uno degli stadi più importanti lungo il sentiero della meditazione, perché il meditante ha affinato la consapevolezza del flusso di luce fino all’estremo limite, alla struttura temporale della percezione ordinaria. Da questo punto di osservazione, ormai stabile e sottratto a ogni influenza, egli riesce a discernere il processo stesso con il quale i fenomeni sembrano originarsi e sparire. Poiché nell’universo intero sono operanti le stesse leggi che regolano la comparsa e la scomparsa dei fenomeni mentali, il meditante ha raggiunto l’interfaccia di mente e cosmo.

    Le tradizioni sono concordi nel considerare l’osservazione del modo di nascere e morire degli eventi l’aspetto principale dell’esercizio, ma l’effettiva esperienza che ne hanno è completamente diversa a causa delle prospettive in cui si pongono: continuità o discontinuità. Nel Buddhismo l’esperienza è una successione di eventi distinti, simili apparentemente a una luce intensissima che lampeggia e si spegne con estrema rapidità come uno stroboscopio ad alta frequenza. Nell’Induismo è una successione continua di cambiamenti (YS, parinama) di più ‘aspetti [osservabili]’ (YS, dharma) di ondulazioni, pressappoco come il succedersi di note alte e basse in una partitura musicale.

    Quando il meditante osserva l’andirivieni discontinuo o il più o meno continuo manifestarsi dei fenomeni ondulatori, avviene un cambiamento improvviso e importante. La consapevolezza si apre e si rivolge proprio alla struttura spazio- temporale del flusso di luce. Sorgono nuovi interrogativi. Quello che sembra andare e venire è di per sé un condizionamento percettivo? Quelle che sembrano molte manifestazioni sono riducibili a un solo fenomeno unitario? Per risolverli, il meditante prende a esaminare le sottilissime relazioni causali e spaziali in cui è incapsulata la percezione. Lo fa adottando una nuova categoria della visione profonda, spesso a carattere paradossale o dialettico.

    Il Visuddhimagga si serve della categoria della scomparsa. Relativamente agli eventi osservabili, lo yogi fissa l’attenzione sulla scomparsa, istante per istante, di ogni singolo sprazzo, mentre ne ignora la comparsa (VM, 20:10). Come risultato, tutti gli eventi si dissipano e si ha quella che si chiama l’esperienza della ‘dissoluzione’ (VM, bhanganyana). Relativamente al punto di osservazione, lo yogi fissa l’attenzione sulla scomparsa di ogni istante distinto di consapevolezza finché tutti non cessino per un certo periodo. Mentre le esperienze risultanti sono profonde, quest’esperienza assume ancora una matrice spazio-temporale. Il Mahayana ha criticato il Theravada che non è riuscito a risolvere completamente il condizionamento spazio-temporale e adotta quindi, per farlo, la categoria della negazione dialettica, come nella famosa istruzione di Nagarjuna:

    Ciò che è percorso non lo si sta percorrendo. Ciò che non è percorso non lo si sta percorrendo. Privo di ciò che è percorso e non percorso, non vediamo nessun cammino che si stia percorrendo. (Nagarjuna, Mulamadhyamakakarikas 2:1).

    Riferita al samadhi del sorgere e dello scomparire, una simile dialettica porta a un’esperienza di ‘non-dissoluzione’ (M, ma ’gag pa) o di ‘ingresso nel sentiero di mezzo’, in cui tutti i molteplici eventi potenziali dell’universo compaiono simultaneamente ma sono reciprocamente dipendenti per la loro esistenza. Negli Yogasutra, il meditante risolve interamente il rapporto fra identità e cambiamento applicando questa categoria non solo agli eventi mutevoli (YS, parinama), ma ora anche alla loro stessa organizzazione temporale. Lo yogi dapprima osserva i cambiamenti (YS, dharma) di schemi, proprietà e stati del campo di energia (YS, 3:13), poi ne osserva il sottostante ‘aspetto immutabile’ (YS, dharmin):

    Un medesimo sostrato (dharmin) sottende gli aspetti osservabili (dharma) che diventano manifesti (udita), cessano di esserlo (shanta) o lo sono potenzialmente (avyapadeshya) (3:14).

    Dopo aver contrapposto il mutevole (dharma) all’immutato (dharmin) lo yogi esamina i rapporti causali fra cambiamento e identità:

    Le differenze della successione (krama) sono le cause delle differenze nelle trasformazioni (parinama) (3:15).

    Ne risulta un’esperienza di unità, in cui tutti i potenziali eventi dell’universo si presentano simultaneamente come una dimensione dello stesso sostrato che li sottende.

    L’esperienza ha una struttura comune, almeno nella Mahamudra e negli Yogasutra. Ciascuna è una variazione sul tema dell’interconnessione. La normale matrice spazio-temporale della percezione ordinaria è trascesa e la consapevolezza si apre a un ordine diverso in cui compaiono tutti i potenziali eventi dell’universo con la trama delle loro potenziali connessioni. In questa indivisa interconnessione dell’universo le interazioni hanno luogo non secondo le leggi causali, ma secondo i rapporti relativi con ogni altra cosa. Da questi rapporti dipendono anche la posizione assumibile nello spazio e le proprietà.

    Ciascuna tradizione spiega come si trascende l’ordinaria percezione spazio-temporale, ma le esperienze sono diverse, come risulta dalle distinzioni descritte fra le posizioni nichilista, del sentiero di mezzo e dell’eterna immutabilità. L’esperienza di dissoluzione, propria del Theravada, è nichilista in quanto eventi e istanti di consapevolezza si succedono e scompaiono. L’esperienza dell’unità, propria dell’Induismo, è di eterna immutabilità perché l’interconnessione che è percepita riguarda un qualche sostrato sotteso all’universo (YS, prakrti) e la consapevolezza che lo riflette non cambia mai (YS, purusa). L’esperienza propria della Mahamudra è quella del sentiero di mezzo perché cambiano gli eventi interconnessi e la consapevolezza di essi; gli eventi particolari, percepiti nella loro interconnessione, dipendono per la loro esistenza visibile dal rapporto in cui sono con tutti gli eventi potenziali, e la consapevolezza concomitante cambia quando essi sembrano cambiare.

    Stadio VI. La mente e l’illuminazione straordinarie

    A.. Il rapporto fra la percezione ordinaria e l’interconnessione straordinaria della mente

    L’apertura della consapevolezza al livello che oltrepassa la matrice spazio-temporale della percezione ordinaria costituisce una profonda trasformazione della coscienza – quella che la Mahamudra chiama la ‘mente straordinaria (thun mong mayin pa’i sems) e gli Yogasutra una ‘diversa classe di esistenza’ (YS, 4:2). Il primo compito è l’esperienza samadhica per intervalli sempre più lunghi. Il meditante deve estirpare le false percezioni e le influenze corruttrici, stando attento a non perdere di vista l’iniziale categoria della visione profonda ora applicata in un contesto totalmente nuovo. Il Visuddhimagga gli rammenta di concentrarsi sull’istante dello scomparire perfino quando non vede altro che la morte di tutte le formazioni (VM, 21:29). La Mahamudra prospetta un’altra meditazione investigativa, l’‘evidenziare’ (M, ngo, sprod ba), che serve a ricordare allo yogi che la vasta interconnessione che sembra scaturire non è sostanziale né dotata di esistenza propria, ma vuota emanazione della mente, simile a un sogno che emana dal sognatore. Gli Yogasutra applicano a un nuovo contesto la categoria dell’identità del cambiamento. Durante il samadhi straordinario il meditante diventa consapevole delle sottili interazioni non causali fra gli eventi potenziali, chiamate vasana. Inizialmente può notare delle ‘differenze di attività’ (YS, pravrttibhede) originate da queste sottili interazioni. Se la categoria, l’identità del cambiamento, è applicata alle vasana, “l’impulso di ciò che non è lo stesso è lo stesso” (YS, 4:5).

    Il tenere presente una particolare categoria durante il samadhi straordinario influenza l’esperienza effettiva, compendiata nelle posizioni nichilista, mediana e di perpetua immutabilità. Con l’accento posto sulla scomparsa nel tempo, nel Visuddhimagga, la pienezza delle interazioni potenziali non è compiutamente esposta, anche se il testo allude ai ‘livelli delle formazioni’ (VM, 21:29). Con l’accento posto sull’identità del cambiamento, negli Yogasutra, la simultaneità degli eventi emerge come sostanza eterna (ashreya), prakrti primordiale, capace di rispecchiare l’eternamente immutabile consapevolezza trascendente (purusa).

    Malgrado queste differenze, il samadhi straordinario ha nelle tre tradizioni una struttura comune. In termini strutturali, rappresenta una totalità indivisa (M, kun gzhi, letteralmente: ‘base di ogni cosa’; YS, ashreya; vastu) in cui ogni parte esiste soltanto nel suo rapporto con tutte le altre. Ogni relativo istante mentale contiene le informazioni sull’universo intero mediante le sue interconnessioni. In termini di attività, rappresenta il movimento dell’universo in cui ogni sottile attività si inserisce in ogni altra sottile attività. Il concetto buddhista di produzione condizionata e la definizione induista delle vasana esprimono questo tipo di interazioni non causali.

    Il meditante deve imparare a introdurre nel samadhi straordinario la categoria della visione profonda e a confrontare la nuova visione con le precedenti, ordinarie. Stabilisce dei legami fra le interazioni potenziali non manifeste e gli eventi mentali manifesti, sottili e grossolani. Impara ad ‘accoppiare’ (m, zung ’jug) o ad ‘abolire l’intervallo’ (YS, anantra, 4:9) fra mente straordinaria e mente ordinaria. Lo fa entrando dapprima nel samadhi straordinario e poi osservando il ritorno della mente ordinaria nella ri-transizione alla coscienza vigile (M, rjes thob). Con il ripetuto esercizio i due stati diventano contigui. Nella Mahamudra quest’esercizio di accoppiamento è chiamato ‘simultaneità della mente’ (M, lhan cig skyes sbyor pa’ i sems); in esso l’esperienza simultanea di tutti i potenziali eventi interconnessi è accoppiata al succedersi del flusso sottile e del contenuto grossolano dell’esperienza meditativa ordinaria. Ne risulta uno stato di meditazione paradossalmente nel tempo e fuori dal tempo. L’esperienza paragonabile a questa nel Visuddhimagga, chiamata ‘sofferenza’ (VM, 21:29-42), accentua sempre molto il succedersi della frattura fra eventi e consapevolezza, ma ne dilata la portata a ‘tutte le formazioni, ovunque’ (VM, 21:29), in modo che diventino chiare le interazioni fra eventi passati, presenti e futuri. Negli Yogasutra lo yogi comincia con l’aprire la consapevolezza alle sottili interazioni non casuali (vasana) e all’attività grossolana (vrtti) del contenuto mentale durante la transizione alla meditazione ordinaria. Giunge poi a rendersi conto, facendo ampio ricorso alla categoria dell’identità-nel-cambiamento, che ‘non c’è intervallo’ (anantra, YS, 4:9) fra livelli ordinari e straordinari.

    Poiché l’esperienza del samadhi straordinario è coercitiva, i meditanti tendono a reagirvi. Devono ripetere l’esercizio fino a diventare ‘indifferenti’ (M, rang lugs), ‘distaccati’ (VM, 21:43-44) o ‘liberi dal desiderio’ (YS, 4:10). Allora diventano chiari gli anelli della catena dell’attività karmica. Le sottili interazioni non causali fra gli eventi relativi interconnessi (M, las; VM, kamma; YS, vasana) sono i ‘depositi’ dell’attività karmica (YS, 4:6). Tali interazioni influiscono sui cambiamenti del flusso di luce (M, spros ba; VN, bhavanga; YS, parinama) al livello sottile dell’esperienza ordinaria, che provoca a sua volta manifestazioni mutevoli (M, spros ba; YS, vritti) nel contenuto mentale grossolano nel fluire della coscienza. Il meditante impara non soltanto per quali stadi un’azione diventa manifesta nel tempo secondo la dottrina della causa e dell’effetto, ma vede anche che è possibile fermare la catena karmica. Questo tipo di visione profonda è chiamato rispettivamente, nelle tre tradizioni: ‘alba della saggezza’ (M, ye shes skyes ba), ‘desiderio di liberazione’ (VM, 21:45-46) e ‘ [possibilità della] non-esistenza delle vasana’ (YS, 4:11).

    Successivamente lo yogi passa a osservare con maggiore attenzione la sottile attività karmica e le sue manifestazioni. Quest’esame è chiamato ‘simultaneità di cognizione e percezione’ (M, lhan skyes rtog snag), ‘riosservazione’ (VM, 21:47-60) e visione dell’ ‘identica entità (vastu) nel diverso materiale mentale’ (YS, 4:4-17). Il meditante giunge a rendersi conto che tutti gli eventi osservabili – simultanei o in successione, sottili o grossolani – non sono che emanazione di questa sottile attività karmica. Inoltre, mediante l’esercizio seduta per seduta, la sottile reattività diminuisce ed egli li coglie in una forma nuova, così come sono allo stato primordiale. Secondo la Mahamudra, la ‘reattività’ (M,byas ba) e le ‘false cognizioni’ (rtog pa) si attenuano e le emanazioni sono percepite ‘vividamente’ nella loro originaria ‘spontaneità’ (nnyug ma). E’ ciò che è chiamato ‘conoscenza ordinaria’ (M, tha mal gyi shes ba). Anche per il Visuddhimagga la reattività svanisce e in ogni sorgere diventano chiari tre segni: l’impermanenza, l’assenza del Sé, e la reattività. E’ ciò che è chiamato ‘equanimità’. Per le due tradizioni buddhiste lo stato primordiale è uno stato di immediatezza. Gli eventi si stabilizzano rapidamente prima di venire inseriti nei costrutti – tempo/spazio, Sé, percetti e pensieri grossolani. Gli Yogasutra chiamano lo stato primordiale ‘quiddità di un’entità’ (YS, 4:14). E’ uno stato di sostanzialità. Lo yogi induista vede nella continua mutevolezza e nell’apparente diversità di tutte le manifestazioni e del materiale mentale la stessa ‘entità’ (vastu), la prakrti primordiale, che appare sotto forme diverse solo a causa dell’attività delle vasana (YS, 4.17). Nonostante il diverso modo di concepire lo stato primordiale, le tre tradizioni sono concordi nel ritenere che, considerati gli eventi osservabili, ci sia un ritorno a una qualche situazione originaria, e che, considerato il punto di osservazione, la consapevolezza proceda senza reattività e con la nozione dell’esperienza originaria quale è presentata. Tutti i paradossi – sorgere/scomparire, uno/molti, successione/simultaneità – sono risolvibili con la comprensione delle sottili interazioni non causali della mente straordinaria.

    B. Il rapporto fra la mente straordinaria interconnessa e la mente illuminata

    Dopo aver acquisito la visione profonda della natura dell’attività karmica della mente straordinaria e della relazione che essa ha con gli eventi mentali ordinari, il meditante comincia a chiedersi in che modo la consapevolezza equanime dell’attività karmica possa riferirsi anche all’illuminazione. Occorre soddisfare a due condizioni, l’una nella prospettiva del punto di osservazione, l’altra in quella degli eventi osservabili.

    Nella prospettiva del punto di osservazione, la consapevolezza cambia direzione allontanandosi dagli eventi interconnessi emananti per dirigersi su se stessa. Quando essa si ripiega su di sé, si ha spesso un netto cambiamento di esperienza, come l’aprirsi dello spazio fra il mutare degli eventi. Nella Mahamudra ciò è chiamato ‘riconoscimento della sapienza nel flusso in continuo cambiamento’. I tibetani introducono il termine tecnico ‘presenza mentale-consapevolezza’ (M, dranrig) a significare che istante per istante la stessa consapevolezza diventa oggetto di attenzione. Nel Visuddhimagga l’analogo cambiamento è chiamato ‘visione profonda che conduce all’emersione’ (VM, 21:83-110). I tre segni sono chiari in ogni istante. Ne consegue che la consapevolezza istante per istante non ha più nient’altro su cui posarsi, sicché si dice che l’illuminazione (nibbana) diventa il suo oggetto. Per gli Yogasutra, la consapevolezza continua si discosta dalle attività continue (vasana) della medesima entità, la prakrti primordiale, per dirigersi verso se stessa, verso la consapevolezza trascendente, il purusa. Diventa chiaro il rapporto fra la prakrti primordiale e la consapevolezza trascendente, il purusa (YS, 4:18-23).

    Nella prospettiva dell’evento osservabile, l’attività osservata durante l’equanimità si avvicina sempre più al perfetto stato primordiale; essa deve conformarsi alla condizione naturale dell’attività della mente in modo che possa avvenire l’illuminazione. L’attività mentale è la chiave per la comprensione di questo stadio della pratica meditativa. Si fa un’importante distinzione fra l’ ‘attività’ artificiosa (M, byas ba) – la reattività grossolana e le sottili attività che ostacolano il conseguimento dell’illuminazione – e l’attività spontanea dello stato primordiale. Il meditante deve imparare ad annullare le forme più comuni di reattività – aspettative, dubbi, pensieri di valutazione il continuo cercare di categorizzare l’esperienza che va facendo. Deve anche annullare le sottili attività della meditazione, altro ostacolo al conseguimento dell’illuminazione. Gli strumenti stessi della meditazione, per esempio la ‘presenza mentale’ (M, dran pa) e il ‘portare-alla-mente’ (M, yid la byed pa) diventano ostacoli all’illuminazione e vanno annullati. Ecco perché i tibetani intitolano la serie di esercizi ‘lo yoga della non-meditazione’ (M, sgom med). Anche gli Yogasutra dicono che l’illuminazione non può essere un’attività ‘conseguita’ (prapya) o ‘procurata’ (YS, 2:20). Anziché parlare delle attività che originano l’illuminazione, i tibetani asseriscono che occorre stabilire le condizioni che ne accrescano la probabilità, ossia i ‘mezzi per predisporla’ (M, bzhag thabs). Oltre ad annullare l’attività artificiosa, il meditante deve anche riconoscere e ‘salvaguardare’ la naturale attività spontanea quando questa ha luogo. Le analoghe istruzioni del Visuddhimagga sono chiamate ‘conoscenza della conformità’ (VM, 21.128-136), in cui sono anche comprese certe istruzioni di negazione, ‘spassionatezza’ (VM, nibbida), e protettive, i ‘sette fattori di illuminazione’. Gli Yogasutra usano soltanto istruzioni protettive, compendiate in un unico aforisma:

    Questo (materiale mentale), benché diversificato da innumerevoli vasana, è per il bene dell’Altro (purusa) perché ha la funzione di influire sulle interazioni (YS, 4:24).

    La frase ‘per il bene dell’Altro’ definisce un’importante presa di coscienza per cui l’attività stessa delle vasana è vista esistere a sostegno della consapevolezza trascendente. Il meditante si rende conto che la pura consapevolezza esiste come sfondo permanente alle innumerevoli attività delle vasana.

    Quando le condizioni sono esattamente soddisfatte avviene l’illuminazione. Tutte le tradizioni sono concordi nel sostenere che questa si manifesta come una serie di tre cambiamenti improvvisi della consapevolezza, chiamati momenti di illuminazione: la base, il sentiero e la fruizione. La struttura dell’illuminazione è identica nelle tre tradizioni, ma è diversa l’esperienza del secondo e del terzo momento per la diversità delle prospettive assunte lungo l’intero sentiero della meditazione.

    L’esperienza del primo momento, illuminazione-base, è identica nelle tre tradizioni. Nella prospettiva degli eventi osservabili, di tutti gli eventi – contenuto e attività -, tutto si affievolisce. Si ha la cosiddetta ‘cessazione’ (VM, nirodha; YS, vinivrtti, 4-25-26). Che cosa rimane? Nella prospettiva del punto di osservazione, poiché gli eventi recedono dalla consapevolezza, questa cambia sede: ‘passa alla sponda opposta’ o ‘cambia linea’ (VM, 22, 3-9). Prima dell’illuminazione la consapevolezza è inestricabilmente legata all’attività mentale e agli eventi. Il punto di osservazione e l’evento osservabile si presentano come se fossero inseparabili. Quando invece la consapevolezza sposta la propria sede durante l’illuminazione-base, l’associazione fra evento e consapevolezza è permanentemente recisa.

    Il secondo momento di illuminazione, l’illuminazione-sentiero, è caratterizzato dal ritorno degli eventi osservabili, che ora sono visti da un diverso punto di consapevolezza (VM, 22:10-14; YS, 4:27-28). Poiché questa non è più associata agli eventi osservabili, nulla può interferire con la loro attività naturale, né si origina alcun nuovo karma. Le tradizioni concordano nel ritenere che l’estirpazione dell’attività karmica avvenga nell’illuminazione-sentiero. Il ritorno degli eventi osservabili, liberi dall’attività e reattività che li riguarda, è paragonato all’immettersi in un flusso con le sue correnti naturali (VM, sotapanna, letteralmente: ‘chi entra nel flusso’). Per la Mahamudra tutti gli eventi potenziali riempiono la consapevolezza e si presentano paradossalmente in simultaneità e in successione. Nel Visuddhimagga gli eventi osservabili si svuotano della consapevolezza, per cui il contenuto dell’illuminazione-sentiero non è molto diverso da quello dell’illuminazione-base, tranne che per l’esperienza di un altro cambiamento e della conseguenza che ne deriva: il consumarsi interamente del karma. Negli Yogasutra l’attività simultanea delle vasana e l’attività in successione delle impressioni (samskara) rimandano nuovamente al riconoscimento:

    Nell’intervallo [che segue] ciò, ci sono altri Riconoscimenti che provengono dai samskara.

    La principale differenza fra gli eventi osservabili secondo la Mahamudra e secondo gli Yogasutra sta nella contrapposizione fra la relatività interconnessa, insostanziale degli eventi discontinui per il Buddhismo, e l’attività continua, interconnessa della prakrti sostanziale per l’Induismo.

    L’illuminazione-fruizione è il momento finale nel quale avviene una trasformazione permanente della coscienza. Ancora una volta la natura di tale trasformazione varia nelle diverse tradizioni. Nella Mahamudra il meditante diventa i ‘tre corpi del Buddha’: uno sul piano della consapevolezza (M, chos sku), uno nei vari reami cosmici potenziali interconnessi (M, longs sku) e uno sul piano dell’ordinaria esistenza spazio-temporale (M, sprul sku). Questi tre stati ora coesistono e sono parte della coscienza del meditante. Per il Visuddhimagga, il meditante avverte una profonda pace e tranquillità, senza alcuna attività mentale estranea (VM, 22:15-18). Per gli Yogasutra, sperimenta un samadhi detto ‘nube del dharma’ (YS, darmhameghasamadhi, 4.29), in cui si riversano, come da una nuvola gonfia, tutte le forme possibili di conoscenza e di esistenza.

    C. Esame retrospettivo

    Dopo questi tre momenti di illuminazione, ritorna l’odierna esperienza spazio-temporale con il suo contenuto mentale grossolano. La coscienza ordinaria si manifesta come se fosse allo stato vigile precedente a ogni esperienza di meditazione; ma il meditante è riflessivamente consapevole che è avvenuto un profondo cambiamento. Torna il contenuto dell’esperienza ordinaria, ma in una prospettiva completamente diversa. Nell’esame retrospettivo è posto in risalto il rapporto fra la consapevolezza illuminata e l’ordinaria coscienza vigile. Il meditante impara a estirpare ulteriormente le percezioni errate e le inclinazioni attraverso cui si può perdere la prospettiva illuminata e in tal modo rende stabile l’illuminazione come una dimensione dell’ordinaria esperienza vigile.

    Sommario

    Il sentiero della meditazione

    Nonostante le visibili differenze fra le tre tradizioni della meditazione, è nettamente evidente la presenza sottostante di un’unica, invariabile sequenza di stadi. Questi stadi rappresentano una prevedibile progressione di cambiamenti nella struttura psicologica e sono soggettivamente esperiti come il sistematico dischiudersi di stati di coscienza distinti. Il sentiero che vi è sotteso può essere concettualizzato nel modo migliore come la sistematica decostruzione delle strutture dell’ordinaria coscienza vigile. Come è illustrato nella Tavola 5 [che non ho riportato qui, ma che trovate nel libro], in ciascuna delle tradizioni i sentieri della meditazione comportano la progressiva decostruzione di tutte queste strutture: atteggiamenti e schemi comportamentali (I stadio); pensiero (II stadio); percezione grossolana (III stadio); sistema del Sé (IV stadio); matrice spazio-temporale (V stadio). Per effetto dello smantellamento delle coordinate della percezione ordinaria, il meditante ha accesso a una struttura non ordinaria o straordinaria della coscienza che non opera secondo le normali leggi psicofisiche. Anche la decostruzione di questa struttura porta all’illuminazione (VI stadio). Ognuno di questi cambiamenti manifesta una ‘specificità dello stato’ (Tart, 1971) ed è avvertito come un netto passaggio a un diverso stato di coscienza. La natura e la visione profonda proprie di ciascuno di questi stati di coscienza sono specifiche dello stato stesso e non si trasferiscono ad altri. L’esperienza è ‘vincolata allo stato’ (Fischer, 1971).

    La progressione delle alterazioni nella struttura della coscienza è avviata da certe condizioni. Un prerequisito è la diminuita interazione sensoriale-motoria fra l’organismo e l’ambiente. Tuttavia ciò che vi contribuisce maggiormente è il concentramento dell’attenzione. L’uso prolungato dell’attenzione selettiva, dello sforzo e della pura consapevolezza, nonché il loro sviluppo come capacità generiche di attenzione, sono essenziali per l’attivazione dei cambiamenti lungo il sentiero della meditazione. Rapaport (1967) e Neisser (1976) hanno dato rilievo al ruolo svolto dall’attenzione nell’influire sui cambiamenti delle strutture cognitive. Tart (1975a) ha dimostrato specificamente che la si può usare per ‘interrompere’ la stabilità della normale coscienza vigile e provocare stati alterati. Brown (1977) ha mostrato anche che la si può usare per produrre una progressione di stati di coscienza nella meditazione tibetana.

    I teorici occidentali e gli autori della Mahamudra hanno avanzato teorie simili per spiegare i meccanismi del cambiamento strutturale. Gli uni e gli altri mettono in risalto il rapporto fra consapevolezza e struttura psicologica. Per Tart, la coscienza è composta da tre elementi: la struttura (organizzazione relativamente stabile), l’energia (ciò che attiva o disattiva le strutture e l’attenzione/consapevolezza (sia l’attenzione volitiva sia la pura consapevolezza). Con l’applicazione dello sforzo si può scompigliare un’organizzazione relativamente stabile come lo stato vigile. Ne può seguire uno stato alterato di coscienza separato: uno schema relativamente stabile, con una struttura unica proveniente dallo stato vigile. Questo stato stabile può essere osservato con meno sforzo. Facendone esperienza si può anche imparare a ‘liberare completamente la consapevolezza dalle strutture’ e a percepirla nella sua purezza:

    La coscienza, come la consideriamo ordinariamente in occidente, non è pura consapevolezza ma piuttosto consapevolezza incarnata nella struttura psicologica della mente e del cervello. L’esperienza ordinaria non è né consapevolezza pura né pura struttura psicologica, ma è esperienza della consapevolezza inserita e modificata dalla struttura della mente/cervello, e della struttura della mente/cervello inserita e modificata dalla consapevolezza. Queste due componenti, consapevolezza e struttura psicologica, costituiscono una gestalt, un sistema generale interagente, dinamico, che costituisce la coscienza. (Charles, T. Tart. 1975, Stati di coscienza, Astrolabio, Roma, 1978, pag. 267 )

    Vi sono delle tecniche, tuttavia, che sono intese a liberare la consapevolezza di una persona dal dominio della struttura, dal meccanismo programmato in lei culturalmente. (Ibidem, 285)

    In modo simile, anche la Mahamudra parla dei tre ‘stili (M, lugs) dell’attenzione: ‘tenersi saldamente’ con sforzo (M, sgrim ba), ‘lasciar andare’ lo sforzo (M, lhod pa) e ‘pura consapevolezza’ (M, rig pa). La Mahamudra aggiunge qualcosa che manca all’opera di Tart, cioè il modo in cui questi tre stili dell’attenzione si applicano a ciascuno dei principali stadi della meditazione. In ogni stadio si ricorre allo sforzo per smantellare la struttura a esso propria. Allentando lo sforzo, il meditante è in grado di osservare lo stato di coscienza separato, stabile, che ne risulta. Avviene infine una riorganizzazione in cui la struttura si scompone e la consapevolezza temporaneamente se ne libera. Nel sottostadio A la struttura è interrotta, nel sottostadio B si osserva lo stato che ne risulta, nel sottostadio C avviene la riorganizzazione e la consapevolezza è liberata.

    L’intero sentiero della meditazione si dispiega come una partitura musicale con un tema ripetuto. Si noti la profonda regolarità: i, A, B, C; ii, A, B, C, … vi, A, B, C. iA, interrompere; iB, osservare lo stato che ne risulta; iC, decostruire e sviluppare la consapevolezza pura. Durante il sottostadio C di ogni stadio crollano le strutture abituali: atteggiamento, pensiero, percezione grossolana, ecc. Tale è la musica della mente: culmina nel vi stadio quando si dissolve la più sottile struttura della percezione e la consapevolezza si libera permanentemente dalla struttura psicologica. Ecco l’illuminazione.

    Poiché fino a poco tempo fa l’attenzione è stata ignorata nelle teorie occidentali dello sviluppo e della cognizione (Brown, 1977), non sorprende che il sentiero della meditazione sia stato un prodotto piuttosto incomprensibile dell’Oriente. La meditazione è semplicemente una forma di addestramento intensivo all’attenzione e alle sue conseguenze, la più importante delle quali è l’avvio di una sequenza atipica dello sviluppo adulto: atipica solo nel senso che non tutti gli adulti possono avere accesso al sentiero della meditazione-sviluppo, ma solo coloro che sottopongono l’attenzione a un addestramento rigoroso. Chi riesce a farlo è come un maestro che diriga la meravigliosa musica della mente.

    Anche se è chiaramente evidente che esiste un unico sentiero sotteso a tutte le tradizioni meditative, possono essere assunte prospettive diverse che, a loro volta, danno luogo a esperienze diverse negli stati equiparabili di quel sentiero. Le differenze diventano visibili nel terzo sottostadio (C) di ogni stadio, ossia nel sottostadio in cui avviene la decostruzione e la consapevolezza si libera dalla sua prigionia entro la struttura: decostruzione del pensiero (iiiC); del Sé (ivC); del tempo/spazio (vC); delle interazioni straordinarie (viC). Una volta liberata la consapevolezza, è possibile assumere prospettive diverse, per esempio, la conformità nel Buddhismo o la concomitanza riflessiva nello yoga induista. Questa nuova applicazione della consapevolezza a seconda delle differenti prospettive produce esperienze diverse durante lo stesso sottostadio. Le differenze sono compendiate in termini di discontinuità e continuità: continuità contrapposta a discontinuità del pensiero (iiC), del flusso di luce (vC), dell’interconnessione (vC), della mente illuminata (vC). Ne risulta che la mente illuminata finale è diversa nelle varie tradizioni.

    Le conclusioni esposte qui sono quasi opposte alla nozione stereotipa della philosophia perennis, la quale afferma che più sentieri spirituali portano alla stessa meta. Il raffronto approfondito delle varie tradizioni ci porta a concludere che c’è un unico sentiero ma con più esiti. Ci sono più tipi di illuminazione, anche se tutti liberano la struttura psicologica e alleviano la sofferenza.

    Gli stati di coscienza si conformano al tipo di cultura (Wallace, 1959). Gli esercizi preliminari servono a modellare gli stati meditativi. Il novizio effettua uno studio rigoroso dei principi filosofici basilari della tradizione fino a subirne l’‘influenza’ sulla prospettiva adottata durante il samadhi. A questa influenza non si può sfuggire, tranne che nel momento fondamentale dell’illuminazione, ossia finché la consapevolezza non sia permanentemente liberata dalla struttura psicologica. Per lo più le tradizioni della meditazione riconoscono esplicitamente il ruolo influenzante della prospettiva filosofica. L’imbattersi sistematico in una particolare concezione spinge i singoli stati meditativi verso determinate prospettive ed esperienze. Ci si può ragionevolmente attendere che lo yogi sperimenti solo le visioni profonde avallate dalla tradizione. Certo, sono possibili altre esperienze che rientrano nell’insieme delle potenzialità umane. Ecco perché sono così numerosi i dibattiti fra le varie tradizioni. Ciascuna delle quali nega valore all’esperienza dell’altra. I seguaci del Mahayana riconoscono onestamente la validità delle altre esperienze, pur considerando più profonda la propria. Essi perciò inseriscono, dopo ogni sottostadio della pratica meditativa, particolari istruzioni di ‘protezione’ (M, skyon ba), che prevedono il raffronto dell’esperienza dello yogi con quelle accettate dalla tradizione. Tuttavia, dibattiti e inclinazioni a parte, la conclusione è una: se tutte le esperienze e tutti i tipi di illuminazione sono validi, ognuna rappresenta però un diverso punto di vista.

    Un’altra differenza di prospettiva è fra successione e simultaneità. Con il temporaneo liberarsi della consapevolezza dalle fondamentali strutture spazio-temporali della percezione ordinaria (stadio vC), diventa possibile vedere l’esperienza umana nella prospettiva della successione (VM) o in quella della simultaneità (YS) o in entrambe (M) (stadi viA, B). Ed effettivamente in questo stato straordinario, l’intero sentiero della meditazione può essere visto in successione o in simultaneità o in entrambe le forme. Si tratta della distinzione fra sentieri graduali e rapidi, cioè in successione o simultanei. Quest’esposizione ha adottato a scopo euristico la prospettiva della successione, ma ambedue le prospettive sono legittime. E’ giusto dire che la mente può operare per fasi successive o simultaneamente a seconda della prospettiva in cui ci si trova. Questa posizione è coerente con i risultati dell’odierna ricerca nel campo della psicologia cognitivistica. Esistono due modelli di elaborazione delle informazioni: il seriale (successione) e il parallelo (simultaneità) (Hoffman, 1979), ciascuno dei quali suffragato dalla presentazione di prove convincenti. Gli accesi dibattiti che oppongono l’uno all’altro possono essere elusi dicendo che entrambi sono corretti. La mente è attrezzata per elaborare le informazioni sia in successione sia in simultaneità: dipende dalle condizioni e dalla prospettiva assunta. Allo stesso modo. Sempre a seconda della prospettiva in cui si è, nella meditazione la mente si dispiega in fasi successive o in forma simultanea.

    Il risultato finale: gli effetti dell’illuminazione

    Le tradizioni ritengono concordemente che l’illuminazione provochi due importanti cambiamenti: l’alterazione permanente della visione della realtà esterna e l’alleviamento dell’esperienza interiore di sofferenza. Entrambi sono originati dal cambiamento radicale, che avviene durante l’illuminazione, nell’associazione fra consapevolezza e d eventi mentali.

    Il meditante fa esperienza dei profondi colpi che sono inferti all’ordinaria visione della realtà: alcuni prima dell’illuminazione, altri nel corso di essa. Assai prima dell’illuminazione, durante le meditazioni di concentrazione, egli impara ad arrestare la mente, a smantellare la percezione ordinaria, e giunge alla conclusione che il mondo non è semplicemente quale lo si vede, lo si sente, ecc.

    La messa in questione della visione ordinaria diventa anche più decisa con la scoperta dei poteri psichici, specie per il fatto che molti di questi comportano l’azione della mente sulla realtà fisica. Secondo i testi, i poteri psichici diventano utilizzabili in due punti del sentiero: gli stadi ivC e vC. La cosa non sorprende: essi infatti sono disponibili soltanto dopo la decostruzione della percezione grossolana e dell’ordinario sistema del Sé (stadio ivC) e dopo la decostruzione della matrice spazio-temporale della percezione ordinaria (stadio vC). In altre parole, i poteri psichici sono un risultato delle esperienze percettive insite nel nostro potenziale umano, ma diventano manifesti solo dopo la rimozione delle nostre più consuete strutture percettive. E’ una scoperta coerente con la ricerca occidentale sulle capacità psichiche, la quale ha mostrato come queste siano enormemente accresciute negli stati di coscienza transitori, per esempio lo stato ipnagogico (Ullmann e Kripner, 1973). Molti testi condividono l’idea che allo yogi riesca difficile la piena padronanza dei poteri psichici durante lo stadio ivC perché non ha ancora padroneggiato la meditazione di visione profonda. I poteri psichici, quali emergono nello stadio ivC, sono soltanto un risultato dell’intensa concentrazione. Quando però giunge ad avere la padronanza della meditazione di visione profonda, lo yogi ha rimosso anche il più tenue fattore influenzante e ha decostruito la base stessa della percezione ordinaria, la sua matrice spazio–temporale. Ma l’acquisizione di questa visione profonda sulla percezione rende stabilmente utilizzabili i poteri psichici. Questo è forse il motivo per cui gli Yogasutra non accennano a tali poteri nella loro descrizione delle meditazioni di concentrazione, mentre vi danno molto risalto quando esaminano la serie delle visioni profonde (YS, 3:16-52).

    La visione della realtà ordinaria è messa in dubbio in forma ancora più radicale dalla scoperta del samadhi straordinario. Malgrado le notevoli differenze di prospettiva, tutte le tradizioni condividono l’idea che il samadhi straordinario comporti un qualche tipo di esperienza di interconnessione di tutte le potenziali interazioni non causali della mente e dell’universo. Attraverso queste esperienze dirette della più sottile struttura mentale, il meditante scopre nella mente un insieme di operazioni che differiscono completamente dalle ordinarie leggi psicofisiche. In queste sue operazioni più profonde la mente obbedisce a un altro ordine di leggi: quelle dell’interconnessione e della relatività universali. Inoltre, è possibile specificare in quale stadio esattamente avviene la transizione dalle leggi ordinarie a quelle straordinarie. La chiave per farlo è la decostruzione della matrice spazio-temporale della percezione ordinaria.

    Ma la massima sfida alla visione della realtà ordinaria la si ha con l’illuminazione. Quale che sia la prospettiva in cui avviene l’esperienza – nichilista, del sentiero di mezzo o dell’eterna immutabilità – , l’illuminazione-base è identica nelle varie tradizioni. Durante l’illuminazione-base il contenuto dell’esperienza svanisce e la consapevolezza cambia sede. Il rapporto fra consapevolezza e struttura viene permanentemente alterato. La consapevolezza si libera una volta per tutte della struttura mentale. Questo altera, a sua volta, la visione della realtà dopo l’illuminazione. Il meditante è ora ‘consapevole’ che la realtà ordinaria non è altro che una ‘costruzione’ (M, bcos pa), un semplice modello costruito dalle incessanti interazioni non casuali e casuali che avvengono nella mente. Modelli siffatti ingenerano ‘idee erronee’ (M, rtog pa) sulla natura della realtà. Quando però la consapevolezza è liberata da queste costruzioni, lo yogi si rende conto che di per sé questi modelli e concetti non costituiscono assunti veritieri circa la realtà: secondo gli Yogasutra non sono che ‘illusione’ (YS, maya).

    Queste descrizioni si avvicinano molto alle teorie costruttivistiche della percezione elaborata in Occidente (Bruner, 1973; Neisser, 1967; Pribram, 1974). Secondo Bruner, la percezione ordinaria è ‘non-veridica’. L’organismo traduce attivamente gli stimoli in unità di informazione, poi costruisce per essi un modello mediante le operazioni con cui li ripartisce in categorie. Benché le categorie possano somigliare agli aspetti fisici del mondo, tanto da far sì che i costrutti percettivi vi si avvicinino, tuttavia quest’atto di costruzione spesso “va al di là dell’informazione data”. La percezione ne viene allora influenzata in qualche misura: non è veridica. L’opera di Bruner sulla non-veridicità della percezione ordinaria è una teoria paragonabile alla teoria mahayana della vacuità e alla nozione yogica di maya. Condivisa da tutte queste teorie costruttivistiche e decostruttivistiche della percezione è la nozione che la visione ordinaria del mondo è solo una grossolana approssimazione. E’ meglio quindi non attaccarvisi. Studi empirici sui meditanti illuminati hanno mostrato che essi ‘vedono’ e insieme ‘vedono attraverso’ la realtà ordinaria.

    La brusca svolta che avviene nel rapporto fra struttura e consapevolezza ha anche un profondo impatto sull’esperienza della sofferenza umana. La principale asserzione, e quindi in primo luogo la ragione per meditare, è che l’illuminazione la può alleviare. Durante l’illuminazione-sentiero, in particolare, cessa la reattività della mente al proprio contenuto, per cui non può essere originato nuovo karma. Il contenuto di esperienza che ricompare dopo l’illuminazione si basa sulla maturazione del karma passato anche se non ne viene originato di nuovo. Poiché la consapevolezza ha cambiato sede, non c’è reattività a questo contenuto emergente. Tutte le tradizioni ritengono concordemente che la reattività si arresti, ma differisce, in ciascuna di esse, il destino delle reazioni emotive. Nella tradizione nichilista del Buddhismo theravada, gli intensi stati emotivi possono cessare completamente dopo un certo numero di esperienze di illuminazione. Per la tradizione dell’eterna immutabilità, propria dello yoga induista, c’è una relativa permanenza degli stati di beatitudine, anche se al di là di questi c’è ancora un’esperienza in cui non esistono più emozioni (sagunam purusa contrapposto a nirgunam purusa, YS, 4:38). Per il sentiero di mezzo, gli intensi stati emotivi hanno luogo in forma relativa e dipendente, ma alla fin fine sono vuoti. In ogni caso, l’esperienza umana della sofferenza viene alterata perché è cambiato il modo di elaborare le informazioni sulle emozioni.

    Questa concezione è assai vicino alle teorie cognitivistiche delle emozioni, basate sull’elaborazione delle informazioni (Tompkins, 1962-1963); Singer e Antrobus, 1972). L’affetto è la parte del sistema di elaborazione delle informazioni che serve a provocare una retroazione sull’elaborazione stessa e funge come base per la motivazione e l’azione. Se per esempio i nuovi stimoli da elaborare sono troppi, ne può seguire una risposta di soprassalto. L’elaborazione moderata delle informazioni provoca interesse; gli stimoli discrepanti impauriscono. E’ logico che una considerevole e permanente alterazione del modo di elaborare le informazioni produrrebbe anche un’alterazione altrettanto considerevole e permanente nell’esperienza dell’emozione. I testi della meditazione rivendicano qualcosa di assolutamente radicale: nientemeno che una vita senza l’esperienza della sofferenza emotiva. Freud è stato più pessimista quanto alla psicoanalisi, in cui l’interpretazione delle associazioni libere potrebbe soltanto sostituire la sofferenza nevrotica con la comune infelicità umana. I maestri della meditazione hanno ripreso il cammino dal punto in cui si è arrestato Freud. Nelle parole del Buddha: “Se c’è una sola cosa che vi insegno, è la fine della sofferenza” (Culamalunkyasutta, M. 63). Il disciplinato spiegamento dell’attenzione, che può modificare permanentemente l’elaborazione umana delle informazioni, può anche alleviare ogni traccia dell’infelicità quotidiana.

Commenta questo articolo