“La Teoria della Ghianda e la Redenzione della Psicologia”

Dal libro: “Il codice dell’anima” di James Hillman, Adelphi 1997

James Hillman, psicologo analista americano, è stato direttore dell’Istituto C.G. Jung di Zurigo. Tra i suoi libri ricordiamo: Saggio su Pan, Il suicidio e l’anima, Il mito dell’analisi, Anima, La vana fuga dagli Dei, Fuochi blu, La forza del carattere.

    In questo libro, attraverso le storie di molti personaggi famosi, Hillman affronta il tema del destino. Esiste qualcosa in ciascuno di noi che ci induce a essere in un certo modo, a fare certe scelte, a prendere certe vie? Se esiste, è il daimon, il “demone” che ciascuno di noi riceve come compagno prima della nascita, secondo il mito di Er raccontato da Platone. E’ ciò che si nasconde dietro le parole come “vocazione”, “chiamata”, “carattere”. E’ la chiave per leggere quel linguaggio cifrato che costituisce il “codice dell’anima”.

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    Ci sono più cose nella vita di ogni uomo di quante ne ammettano le nostre teorie su di essa. Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo “qualcosa” lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono.

     Questo libro ha per argomento quell’annuncio.

    O forse la chiamata non è stata così vivida, così netta, ma più simile a piccole spinte verso un determinato approdo, mentre ci lasciamo galleggiare nella corrente pensando ad altro. Retrospettivamente, sentiamo che era la mano del destino.

    Questo libro ha per argomento quel senso del destino.

    Tali annunci e tali sensazioni determinano una biografia con altrettanta forza dei ricordi di violenze terribili; solo che quegli enigmatici momenti tendono a essere relegati in un angolo. Le nostre teorie, infatti, danno la preferenza ai traumi, e al compito che essi ci impongono di elaborarli. Ma, nonostante le offese precoci e tutti i “sassi e i dardi della oltraggiosa sorte”, noi rechiamo impressa fin dall’inizio l’immagine di un preciso carattere individuale dotato di taluni tratti indelebili.

    Questo libro ha per argomento la potenza di quel carattere.

    Poiché le teorie psicologiche della personalità e del suo sviluppo sono così fortemente dominate dalla visione “traumatica” degli anni infantili, la messa a fuoco dei nostri ricordi o il linguaggio con cui raccontiamo la nostra storia sono a priori contaminati dalle tossine di tali teorie. E’ possibile, invece, che la nostra vita non sia determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dal modo in cui abbiamo imparata a immaginarla. I guasti non ci vengono tanto dai traumi infantili , bensì – è quanto si sostiene in questo libro – dalla modalità traumatica con cui ricordiamo l’infanzia come un periodo di disastri arbitrari e provocati da cause esterne che ci hanno plasmati male.

    Questo libro, dunque, vuole riparare in parte a tali guasti, mostrando che cos’altro c’era, c’è, nella nostra natura. Vuole risuscitare le inspiegabili giravolte che ha dovuto compiere la nostra barca presa nei gorghi e nelle secche della mancanza di senso, restituendoci la percezione del nostro destino. Perché è questo che in tante vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi.

    Non la ragione per cui vivere; non il significato della vita in generale, o la filosofia di un credo religioso: questo libro non ha la pretesa di fornire risposte del genere. Esso vuole rivolgersi piuttosto alla sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere; la sensazione che il mondo, in qualche modo, vuole che io esista, la sensazione che ciascuno è responsabile di fronte a un’immagine innata, i cui contorni va riempiendo nella propria biografia.

    Quell’immagine innata è anch’essa l’argomento di questo libro, così come è l’argomento di ogni biografia – e nelle pagine seguenti ne incontreremo molte, di biografie. Quello della biografia è un problema che ossessiona la soggettività occidentale, come dimostra il suo abbandono alle terapie del Sé. Chi è in terapia, o è comunque toccato dalla riflessione terapeutica sia pure diluita nel bagno di lacrime delle confessioni in diretta TV, è alla ricerca di una biografia soddisfacente: Come posso mettere insieme in un’immagine coerente i pezzi della mia vita? Come posso rintracciare la trama di fondo della mia storia?

    Per scoprire l’immagine innata dobbiamo accantonare gli schemi psicologi generalmente usati – e per lo più usurati. Essi non rivelano abbastanza. Rifilano le vite per adattarle allo schema: crescita come sviluppo, una fase dopo l’altra, dall’infanzia attraverso una giovinezza tormentata fino alla crisi della mezza età e alla vecchiaia, e infine alla morte. Mentre procedi, un passo dopo l’altro, attraverso una mappa già tutta disegnata, ti ritrovi su un itinerario che ti dice dove sei stato prima ancora che tu ci sia arrivato, o nella media di una statistica calcolata da un attuario per conto di una compagnia di assicurazioni. Il corso della tua vita è stato descritto al futuro anteriore. Oppure, invece della prevedibile autostrada, sarà il “viaggio” fuori dagli itinerari battuti, in cui si accumulano e si scartano episodi senza un disegno, e gli eventi sono frantumati come in un curriculum vitae organizzato esclusivamente sulla base della cronologia: prima ho fatto Questo, poi Quest’altro. Una vita simile è come una narrazione priva di trama, tutta imperniata su una figura centrale sempre più tediosa, “io… io… io”, che vagola nel deserto dei “vissuti” senza più linfa.

    Io dico che siamo stati derubati della nostra vera biografia – il destino iscritto nella ghianda – e che entriamo in analisi per riappropriarcene. Ma l’immagine innata non si potrà trovare, finché non disporremo di una teoria psicologica che attribuisca realtà psichica primaria alla chiamata del destino. Altrimenti, la nostra identità continuerà a essere quella del consumatore dei sociologi, determinata da statistiche calcolate su campioni casuali, mentre le sollecitazioni del daimon, non riconosciute, appariranno come eccentricità costipate di aggressivi rancori e di paralizzanti nostalgie. La rimozione, che tutte le scuole terapeutiche considerano la chiave d’accesso alla struttura della personalità, non riguarda il passato, bensì la ghianda, e gli errori che in passato abbiamo compiuto nel rapportarci a essa.

    Noi appiattiamo la nostra vita con il modo stesso in cui la concepiamo. Abbiamo smesso di immaginarla con un pizzico di romanticismo, con un piglio romanzesco. Perciò questo libro raccoglierà anche il tema romantico e oserà vedere la biografia alla luce di grandi idee, come la bellezza, il mistero, il mito.

    Una cosa va chiarita subito. Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi si chiama “me”. Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali.

    Questo libro vuole smascherare la mentalità della vittima, da cui nessuno di noi può liberarsi, finché non riusciremo a vedere in trasparenza i paradigmi teorici che a quella mentalità danno origine e ad accantonarli. Noi siamo vittime delle teorie ancor prima che vengano messe in pratica. L’identità di vittima dell’americano contemporaneo è il rovescio della medaglia sul cui dritto campeggia tutta lustra l’identità opposta: l’immagine eroica dell’«uomo che si è fatto da sé», che si è ritagliato il destino da solo con volontà incrollabile. La Vittima è l’altra faccia dell’Eroe. Più in profondità, tuttavia, noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente – che è come dire ignorano – il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana.

    Questo libro, insomma, ha per argomento la vocazione, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.

    «Prima di poter essere vissuta»… Questa frase solleva dei dubbi su un altro importante paradigma: quello temporale. E il tempo, che misura tutte le cose, deve avere un termine. Anch’esso, dunque, va accantonato; altrimenti, il prima determinerà sempre il  dopo, e noi rimaniamo incatenati a cause remote sulle quali non possiamo intervenire. Perciò questo libro dedicherà molto tempo a ciò che è fuori del tempo, cercando di leggere ciascuna vita a ritroso, oltre che in avanti.

    Il leggere a ritroso ci permette di vedere come certe ossessioni precoci siano l’abbozzo di comportamenti attuali. A volte, anzi, i picchi dei primi anni non sono mai più superati. Leggere a ritroso significa che la parola chiave per le biografie non è tanto “crescita” quanto “forma” e che lo sviluppo ha senso soltanto in quanto svela un aspetto dell’immagine originaria. Beninteso, ciascuna vita umana di giorno in giorno progredisce e regredisce, e noi vediamo svilupparsi svariate facoltà e le osserviamo decadere. E tuttavia l’immagine innata del nostro destino le contiene tutte nella compresenza di oggi ieri e domani. La nostra persona non è un processo o un evolversi. Noi siamo quell’immagine fondamentale, ed è l’immagine che si sviluppa, se mai lo fa. Come disse Picasso: «Io non mi evolvo. Io sono».

    Tale, infatti, è la natura dell’immagine, di qualunque immagine. L’immagine è presente tutta in una volta. Quando guardiamo una faccia di fronte a noi, o una scena fuori dalla finestra o un quadro alla parete, noi vediamo un tutto, una Gestalt. Tutte le parti si presentano simultaneamente. Non c’è un pezzo che ne causa un altro o che lo precede nel tempo. Non ha importanza se il pittore ha inserito le macchie rosse per ultime o per prima, le striature grigie dopo un ripensamento o come struttura iniziale, o se magari esse sono segni residui di un’immagine precedente rimasti sulla tela: ciò che vediamo è esattamente ciò che c’è da vedere, tutto in una volta. E’ così anche per la faccia che ci sta di fronte: carnagione e lineamenti formano un’unica espressione, un’immagine sola, data tutta insieme. Lo stesso vale per l’immagine dentro la ghianda. Noi nasciamo con un carattere; che è dato; che è un dono, come nella fiaba, delle fate madrine al momento della nascita.

    Questo libro intraprende una strada nuova a partire da un’idea antica: ciascuna persona viene al mondo perché chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più nota, la Repubblica. In breve, l’idea è la seguente.

    Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. E’ il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino.

    Secondo Plotino (205-270 d. C. ), il maggiore dei filosofi neoplatonici, noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti, come racconta il mito, alla sua necessità. Come dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta direttamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato.

    E Platone racconta quel mito affinché non dimentichiamo: infatti, come spiega nelle ultimissime righe, salvando il mito potremo salvare noi stessi e prosperare. Il mito, insomma, svolge una funzione psicologica di redenzione, e una psicologia derivata dal mito può ispirare una vita fondata su di esso.

    Il mito porta anche a mosse pratiche. La più pratica consiste nel vedere la nostra biografia avendo presenti le idee implicite nel mito, e cioè le idee di vocazione, di anima, di daimon, di destino, di necessità, che esploreremo nelle pagine seguenti. Poi, suggerisce il mito, dobbiamo prestare particolare attenzione all’infanzia, per cogliere i primi segni del daimon all’opera, per afferrare le sue intenzioni e non bloccargli la strada. Le altre conseguenze pratiche vengono da sé: a) riconoscere la vocazione come un dato fondamentale dell’esistenza umana; b) allineare la nostra vita su di essa; c) trovare il  buon senso di capire che gli accidenti della vita, compresi il mal di cuore e i contraccolpi naturali che la carne porta con sé, fanno parte del disegno dell’immagine, sono necessari a esso e contribuiscono a realizzarlo.

    Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona.

    Si è cercato per secoli il termine più appropriato per indicare questo tipo di “vocazione”, o chiamata. I latini parlavano del nostro genius, i greci del nostro daimon e i cristiani dell’angelo custode. I romantici, Keats per esempio, dicevano che la chiamata veniva dal cuore, mentre l’occhio intuitivo di Michelangelo vedeva un’immagine nel cuore della persona che stava scolpendo. I neoplatonici parlavano di un corpo immaginale, ochema, che ci trasporta come un veicolo, che è il nostro personale supporto o sostegno. C’è chi fa riferimento alla dea Fortuna, chi a un genietto, a un cattivo seme o genio malefico. Per gli Egizi poteva essere il ka o il  ba, con il quale si poteva dialogare. Presso gli eschimesi e altri popoli dove è praticato lo sciamanesimo, è il nostro spirito, la nostra anima-libera, la nostra anima-animale, la nostra anima-respiro.

    In epoca vittoriana, l’antropologo culturale E.B. Taylor (1832-1917) riferiva che presso i popoli “primitivi” (come venivano definite le società non tecnologiche) ciò che noi chiamiamo “anima” era concepito come “un’immagine umana immateriale, una sorta di vapore, di velo o ombra  … impalpabile e invisibile, manifestante tuttavia potenza fisica”. In tempi più recenti, l’etnologo Ǎke Hultkrantz, studiosi dei popoli amerindi, afferma che, secondo queste popolazioni, l’anima “trae origine da un’immagine” ed è “concepita sotto forma di immagine”. Platone, nel mito di Er, usa una parola analoga paradeigma, o forma fondamentale, che abbraccia l’intero destino di una persona. Questa immagine che ci accompagna come un’ombra nella vita, sebbene sia portatrice del destino e della fortuna, non è però una guida morale né va confusa con la voce della coscienza.

    Il genius dei latini non era un moralista. Benché “conoscesse tutto il futuro di un individuo e ne determinasse il destino”, tuttavia “tale divinità non esercitava alcuna sanzione morale; era semplicemente un agente della sorte personale. Si poteva tranquillamente chiedere al proprio genio di realizzare desideri malvagi o egoistici”. A Roma come nell’Africa occidentale o a Haiti, una persona poteva chiedere al proprio daimon (o comunque si chiamasse) di fare ammalare i propri nemici, di gettarli sul lastrico, di aiutarla a manipolare o a sedurre gli altri. Dedicheremo un capitolo (“Il Cattivo Seme”) anche a questo aspetto “malvagio” del daimon.

Il concetto di immagine individualizzata dell’anima ha una storia lunga e complicata; compare sotto le più svariate forme in quasi tutte le culture e i suoi nomi sono legioni. Soltanto la nostra psicologia e la nostra psichiatria l’hanno espunto dai loro testi. Nella nostra società, le discipline che si occupano dello studio e della terapia della psiche ignorano un fattore che alcune culture considerano il nucleo della personalità e il depositario del destino individuale: l’oggetto centrale della psicologia, la psiche o anima, non entra nei libri ufficialmente dedicati al suo studio e alla sua cura!

In questo libro userò in maniera pressoché intercambiabile molti dei termini che designano la nostra ghianda – immagine, carattere, fato, genio, vocazione, daimon, anima, destino – , dando la preferenza all’uno o all’altro a seconda del contesto. Tale uso poco rigoroso si adegua allo stile di altre culture, spesso più antiche della nostra, che hanno di questa enigmatica forza della vita umana una percezione più raffinata che non la nostra psicologia contemporanea, con la sua tendenza a ridurre a definizioni univoche la comprensione di fenomeni complessi. Non bisogna avere paura delle parole altisonanti. Esse non sono vuote; semplicemente, sono state abbandonate, e vanno riabilitate.

Le molte parole e i molti nomi non ci dicono che cosa sia questo “qualcosa”; però ci confermano che esiste. E alludono alla sua qualità arcana. Non possiamo sapere a che cosa esattamente ci riferiamo, perché la sua natura rimane nebulosa e si rivela più che altro per allusioni, per sprazzi di intuizione, in sussurri e nelle improvvise passioni e bizzarrie che interferiscono nella nostra vita e che noi ci ostiniamo a chiamare sintomi.

Un esempio: Concorso per dilettanti alla Opera House di Harlem. Sale timorosa sul palco una sedicenne goffa e magrolina. Viene presentata al pubblico: “Ed ecco a voi Ella Fitzgerald… Miss Fitzgerald ballerà per noi… Un momento, un momento. Come dici, dolcezza? Mi correggo, signore e signori: Miss Fitzgerald ha cambiato idea. Non vuole ballare, vuole cantare…”.

Ella Fitzgerald dovette concedere tre bis e vinse il primo premio. Eppure la sua intenzione era stata quella di esibirsi nel ballo.

Fu il caso a farle cambiare idea di punto in bianco? O era entrato in azione un gene del canto? Oppure quel momento era stato un’annunciazione, che aveva richiamato Ella Fitzgerald al suo particolare destino?

Pur con tutta la sua riluttanza ad accogliere nel proprio campo di studio il destino individuale, la psicologia ammette che ciascuno di noi ha una propria costituzione, che ciascuno di noi, a dispetto a volte di tutto e di tutti, è un individuo unico e irripetibile. Quando però si tratta di dare conto di questa scintilla di unicità e della vocazione che ci mantiene fedeli a essa, la psicologia sembra non sapere bene come muoversi. I suoi metodi di analisi frammentano quel puzzle che è l’individuo in fattori e tratti della personalità, in tipologie, in complessi e temperamenti, nel tentativo di rintracciare il segreto dell’individualità nei substrati della materia cerebrale e in geni egocentrici. Le scuole di psicologia più rigorose espellono addirittura il problema dai loro laboratori, scaricandolo sulla parapsicologia: che studi pure i casi di “vocazioni” paranormali. Oppure lo spediscono in qualche avamposto della ricerca nelle remote colonie della magia, della religione e della follia. Al massimo – cioè al minimo – la psicologia spiega l’unicità di ciascuno ipotizzando una distribuzione statistica delle probabilità.

Questo libro si rifiuta di chiudere nei laboratori di psicologia quel senso di individualità che sta al centro del mio “me”. E non accetterà mai che la mia misteriosa e preziosa vita umana sia il risultato di una probabilità statistica. Sia chiaro, tuttavia, che il rifiuto di queste spiegazioni non comporta chiudere gli occhi gettandosi nelle braccia di una qualche Chiesa. Il tema della vocazione a un destino individuale non c’entra con il conflitto tra scienza senza fede e fede ascientifica. L’individualità rimane di diritto argomento della psicologia, di una psicologia memore del suo prefisso, la psiche, e della sua premessa, l’anima, cosicché la mente può sposare la propria fede al di fuori della Religione istituzionalizzata. La teoria della ghianda si muove agile in mezzo a due dogmi opposti che si guardano in cagnesco da secoli e che il pensiero occidentale si coccola come due cagnolini.

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La teoria della ghianda dice (e ne porterò le prove) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce. L’individualità risiede in una causa formale, per usare il vecchio linguaggio filosofico risalente ad Aristotele. Ovvero, nel linguaggio di Platone e di Plotino, ciascuno di noi incarna l’idea di se stesso. E questa forma, questa idea, questa immagine non tollerano eccessive divagazioni. La teoria, inoltre, attribuisce all’immagine innata un’intenzionalità angelica o demoniaca, come se fosse una scintilla di coscienza; non solo, afferma che l’immagine ha a cuore il nostro interesse perché ci ha scelti per il proprio.

L’idea che il daimon abbia a cuore il nostro interesse è probabilmente l’aspetto della teoria più difficile da accettare. Che il cuore abbia le sue ragioni, d’accordo; e anche l’esistenza di un inconscio dotato di intenzionalità e l’idea che in quello che ci succede svolga una parte il destino: tutto questo è accettabile, quasi banale.

Perché, allora, è così difficile immaginare che qualcuno o qualcosa tenga a me, si interessi a quello che faccio, magari mi protegga o addirittura mi mantenga in vita, indipendentemente, in una certa misura, dalla mia volontà e dalle mie azioni? Perché preferisco una polizza di assicurazione agli invisibili garanti dell’esistenza? Perché non ci vuole niente a morire. Un attimo di distrazione, e i progetti più accurati di un io forte giacciono riversi sul marciapiedi. Quotidianamente qualcuno o qualcosa mi salva la vita, impedendomi di cadere per le scale, di inciampare mentre cammino, di ricevere una tegola in testa. Non vi sembra un miracolo andare a duecento all’ora in autostrada, la musicassetta al massimo volume, la testa da tutt’altra parte, e arrivare sani e salvi? Quale “sistema immunitario” veglia su di me, giorno dopo giorno, mentre ingurgito alimenti conditi di virus, tossine, batteri? La mia pelle formicola di parassiti, come il dorso di un rinoceronte con i suoi uccellini. A ciò che ci salvaguarda diamo il nome di istinto, autoconservazione, sesto senso, coscienza subliminale (tutte cose invisibili eppure presenti). Nei tempi antichi, ciò che con tanta efficacia mi sapeva proteggere era uno spirito custode e io mi guardavo bene dal mancargli di rispetto.

Nonostante questa protezione invisibile, noi preferiamo immaginarci gettati nudi nel mondo, vulnerabili e completamente soli, E’ più facile credere nella favola di uno sviluppo autonomo, eroico, che in quella di una provvidenza che ci guida, che ci ama, che ci trovi necessari per ciò che abbiamo da offrire, che accorre in nostro aiuto nella disgrazia, a volte proprio all’ultimo momento. Ebbene, io voglio affermare la sua esistenza come semplice dato dell’esperienza comune, senza richiamarmi ad alcun guru, senza rendere testimonianza a Cristo, né invocare guarigioni miracolose. Perché non possiamo far rientrare nell’ambito della psicologia ciò che un tempo si chiamava provvidenza, ovvero la presenza invisibile che ci sorveglia e veglia su di noi?

I bambini costituiscono la miglior dimostrazione pratica di una psicologia della provvidenza. E non mi riferisco tanto a quegli interventi miracolosi, alle storie incredibili di bambini che cadono da cornicioni altissimi senza farsi nemmeno un graffio, che vengono recuperati vivi da sotto le macerie dopo un terremoto. Mi riferisco piuttosto al banalissimo miracolo in cui si rivela il marchio del carattere: tutto a un tratto, come dal nulla, il bambino o la bambina mostrano chi sono, la cosa che devono fare.

Queste urgenze del destino sono spesso frenate da percezioni distorte e da un ambiente poco ricettivo, sicché la vocazione si manifesta nella miriade di sintomi del bambino difficile, del bambino autodistruttivo, portato agli incidenti, del bambino “iper”, tutte espressioni inventate dagli adulti in difesa della propria incapacità di comprendere. Ebbene, la teoria della ghianda offre un modo completamente nuovo di guardare ai disturbi infantili, considerandoli dal punto di vista non tanto delle cause quanto delle vocazioni, non tanto delle influenze passate, quanto delle rivelazioni di un futuro intuito.

Riguardo ai bambini e alla loro psicologia, voglio che ci togliamo i paraocchi dell’abitudine (con l’odio mascherato che l’abitudine porta con sé). Voglio che riusciamo a vedere come ciò che fanno e che patiscono i bambini abbia a che fare con la necessità di trovare un posto alla propria specifica vocazione in questo mondo. I bambini cercano di vivere due vite contemporaneamente, la vita con la quale sono nati e quella del luogo e delle persone in mezzo a cui sono nati. L’immagine di un intero destino sta tutta stipata in una minuscola ghianda, seme di una quercia enorme su esili spalle. E la sua voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle voci repressive dell’ambiente. La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene.

Questo libro sta dalla parte dei bambini. Vuole fornire una base teorica per comprendere la loro vita, una base che poggia sui miti, sulla filosofia, su culture diverse dalla nostra e sull’immaginazione. Mira a dare un senso alle disfunzioni infantili prima di applicarvi le loro etichette letteralistiche e prima di spedire il bambino in terapia.

Senza una teoria che lo sostenga dai suoi inizi e senza una mitologia che lo riconnetta a qualcosa che viene prima di tali inizi, il bambino fa il suo ingresso nel mondo come un mero prodotto, casuale o pianificato, ma privo della sua autenticità. Anche i suoi disturbi saranno privi di autenticità, visto che egli non viene al mondo per i propri scopi, con un progetto suo e guidato dal suo genio personale.

La teoria della ghianda si propone come una psicologia dell’infanzia. Afferma con forza l’intrinseca unicità del bambino, il suo essere portatore di un destino, il che significa innanzitutto che i dati clinici della disfunzione attengono in un modo o nell’altro a quell’unicità e a quel destino. Le psicopatologie sono altrettanto autentiche del bambino stesso, non già secondarie o contingenti. Essendo dati con il bambino, anzi dati al bambino, i dati clinici fanno parte delle sue doti. Ogni bambino, cioè, è un bambino dotato, traboccante di dati: di doti, che sono tipiche sue e che si manifestano in modi tipici, sovente causa di disadattamento e di sofferenza. Dunque questo libro ha per argomento i bambini e propone un metodo per guardarli con occhi diversi, per penetrare nella loro immaginazione e per scoprire nelle loro patologie possibili indicazioni del loro daimon e di ciò che potrebbe volere il destino.

vocazioni

Due storie di bambini: quella di un importante filosofo inglese, R.G. Collingwood (1889-1943), e quella di un famoso torero spagnolo, Manolete (1917-1947). La prima mostra come il daimon possa fare irruzione all’improvviso in una giovane vita, la seconda mette in luce i travestimenti e i tortuosi occultamenti cui esso a volte ricorre.

“Mio padre aveva moltissimi libri … un giorno, quando avevo otto anni, la curiosità mi spinse a prendere in mano da uno scaffale un libriccino nero, sulla cui costola era scritto: “L’etica di Kant” … come iniziai a leggerlo, incuneato tra la libreria e il tavolo, fui assalito da una strana sequela di emozioni. Dapprima mi prese un’intensa eccitazione. Avevo la sensazione che in quel libro si dicessero cose della massima importanza su argomenti della massima urgenza, che io dovevo assolutamente capire. Poi, con un impeto di ribellione, venne la scoperta che, invece, non ero in grado di capirle. Quel libro, pensai con un senso di indicibile vergogna, era scritto con parole inglesi e con frasi che seguivano la grammatica inglese, eppure a me sfuggiva completamente il suo significato. Infine, l’emozione più strana di tutte: la certezza che il contenuto di quel libro, anche se non lo capivo, fosse non so come affar mio, una cosa che mi riguardava personalmente, o meglio, che riguardava un me stesso futuro … Non c’entrava però il desiderio; non è che “volessi”, nel senso comune del termine, padroneggiare da grande l’etica kantiana; ma era come se si fosse alzato un velo a rivelare il mio destino. Poi, gradualmente, mi sentii come se mi fosse stato addossato il peso di un compito, la cui natura non avrei potuto spiegare se non dicendo: “Devo pensare”. A che cosa non sapevo, ma, quasi ubbidendo a quel comando, rimasi in silenzio, con la mente assorta”.

Il filosofo che avrebbe concepito importanti opere di metafisica, estetica, religione e storia era stato chiamato e, a otto anni, incominciò a esercitarsi a “filosofare”. Suo padre gli aveva fornito i libri e la possibilità di consultarli, ma era stato il daimon a scegliere quel padre ed era stata la curiosità del daimon ad allungare la mano verso quel libro.

Manolete bambino non lasciava affatto prevedere il futuro torero. L’uomo che avrebbe innovato radicalmente lo stile e l’idea stessa di corrida da bambino era timido e pauroso.

“Delicato e di salute cagionevole (a due anni per poco non era morto di polmonite), al piccolo Manuel interessava soltanto dipingere e leggere. Se ne stava sempre in casa, attaccato alle sottane della mamma, tanto che la sorella e gli altri bambini lo prendevano in giro per questo. Al suo paese lo ricordavano come “un ragazzino esile e malinconico, che vagava per le strade, dopo la scuola, perduto nei suoi pensieri. Raramente si univa agli altri ragazzi per giocare al calcio o alla corrida”. Le cose cambiarono “verso gli undici anni: allora nient’altro contava per lui se non i tori”.

Una trasformazione davvero radicale! Alla sua prima corrida, Manolete, che aveva da poco smesso i calzoni corti, resiste a piè fermo – anzi, viene ferito all’inguine, ma non vuole parlare e non vuole essere accompagnato a casa, dalla mamma; ritornerà insieme agli altri ragazzi.

Si è costellato l’Eroe. Dalla sua ghianda, lo chiama un qualche mito eroico.

Aveva sempre avuto sentore della sua vocazione? In tal caso, è naturale che da piccolo Manolete avesse paura e si aggrappasse alla madre. (Le “sottane della mamma” erano una metafora, o non le stava già usando come la cappa del torero?). E’ naturale che si tenesse alla larga dalle corride tra ragazzi, in strada, rifugiandosi in cucina. Come avrebbe potuto un bambino di nove anni guardare in faccia il suo destino? Nella sua ghianda c’erano tori neri di molte tonnellate e dalle corna come rasoi che lo caricavano e tra essi Islero, il toro che lo squarciò dall’inguine alla pancia, dandogli la morte a trent’anni e il più grande funerale che la Spagna avesse mai veduto.

Collingwood e Manolete illustrano un dato fondamentale: le fragili competenze di un bambino non sono all’altezza delle richieste del daimon. I bambini sono intrinsecamente più avanti rispetto a se stessi anche se a scuola prendono brutti voti e rimangono indietro. Una possibile strada è quella di spiccare la corsa, come il piccolo Mozart e gli altri cosiddetti bambini prodigio, che hanno la fortuna di avere una guida valida. Un’altra consiste nel tirarsi indietro e tenere a bada il daimon, come faceva Manolete nella cucina di sua madre.

L’«impeto di ribellione» che assalì Collingwood era la reazione alla sua inadeguatezza; il bambino di otto anni non era all’altezza di Kant, ma Kant era “affar suo”, una cosa che lo “riguardava personalmente”. Una parte di Collingwood era troppo sprovveduta per decifrare il significato del testo; un’altra parte non aveva otto anni, non era mai stata un bambino.

Altri due esempi simili illustrano lo scarto tra le capacità del bambino e i bisogni del genio. Il primo riguarda la pioniera della genetica Barbara McClintock, il secondo il famoso violinista Yehudi Menuhin.

Riferisce Barbara McClintock (ricevette il premio Nobel per le sue ricerche, che richiedevano il tipo di riflessione solitaria e di manualità che a lei procuravano il piacere più profondo): “Quando avevo cinque anni, chiesi che mi regalassero degli attrezzi. Mio padre mi comperò degli attrezzi adatti alle mie mani, non attrezzi da adulti … ma non erano quelli che volevo io. Io volevo attrezzi veri, non dei giocattoli”.

Anche Menuhin voleva cose che le sue mani non erano in grado di adoperare. Il piccolo Yehudi, quando non aveva ancora quattro anni, sentiva spesso, seduto con i genitori in galleria al Curran Theatre, gli assolo del primo violino Louis Persinger. “Durante uno di questi concerti, chiesi ai miei genitori di regalarmi per il mio compleanno un violino e Louis Persinger come maestro”. Convinto di esaudire così il suo desiderio, un amico di famiglia gli regalò un violino giocattolo, di metallo, con le corde di metallo. “Io scoppiai in singhiozzi, scaraventai l’oggetto per terra e non lo volli vedere mai più”.

Poiché il genio non è limitato dall’età, dalla taglia, dall’istruzione o dall’esercizio, tutti i bambini nutrono un’ambizione smodata, hanno gli occhi più grandi della bocca. E allora: il bambino è narcisistico, vuole attirare l’attenzione, ha fantasie di onnipotenza; per esempio, vuole attrezzi e strumenti che non è in grado di maneggiare. Ma da dove viene l’onnipotenza infantile se non dalla grandiosità della visione che accompagna l’anima in questo mondo? I romantici avevano capito l’intrinseca grandiosità del bambino. Non hanno forse detto: “E veniamo al mondo lasciandoci alle spalle una scia di gloria”?

Le mani di Barbara non erano capaci di sollevare un pesante martello e le braccia di Yehudi erano troppo corte e le dita non avevano l’estensione sufficiente per un violino della misura grande, ma la sua visione lo era, di misura grande, per poter contenere la musica che aveva in testa. E doveva assolutamente avere il violino immaginato, perché Menuhin sapeva “istintivamente, che suonare voleva dire essere”.

Notiamo, qui, che il daimon del piccolo Yehudi rifiutava di essere trattato come un bambino, nonostante il bambino in carne e ossa avesse solo quattro anni. Fu il daimon a fare il capriccio, a pretendere la cosa vera, perché suonare il violino non era divertirsi con un giocattolo. Il daimon non vuole essere trattato come un bambino; non è un bambino, nemmeno un bambino interiore: anzi, può essere molto insofferente di questa contaminazione, di questa incarcerazione dentro il corpo immaturo di un bambino, di questa identificazione tra la sua visione perfetta e un imperfetto essere umano. L’insofferenza ribelle è, come dimostra l’esempio di Yehudi Menuhin, una caratteristica primaria del comportamento ispirato dalla ghianda.

Se esaminiamo l’infanzia della scrittrice francese Colette, scopriamo che anch’essa era affascinata dagli attrezzi del suo mestiere. A differenza del destino di Menuhin, che scattava come una tigre, il suo, più simile a un gatto francese che sonnecchia sul davanzale, stava in attesa sornione, procrastinando la propria necessità di scrivere con l’osservazione dei tentativi paterni. Un po’ come Manolete, Colette si tirava indietro – per proteggersi, forse?

Come lei stessa racconta, l’avversione nei confronti della scrittura la salvaguardò da un inizio troppo precoce, quasi che il suo daimon non volesse che lei cominciasse prima di essere pronta ad accogliere il suo dono, prima di aver letto, letto tanto, e prima di aver vissuto e imparato ed esercitato tutti i sensi, l’odorato, il tatto. La scrittura, con i suoi tormenti, non avrebbe comunque tardato, grazie a Dio, ad affliggere la sua vita, ma Colette doveva prima assorbire la materia sensuosa da immettere nei suoi scritti. Non soltanto gli eventi percepiti che penetravano nella sua sensuosa memoria, ma la materia stessa, palpabilissima, del mestiere di scrivere nella sua fisicità. Benché avesse ripudiato le parole, infatti Colette provava una vera avidità per i materiali della sua vocazione.

“Un sottomano di carta assorbente vergine, un righello di ebano, una, due, quattro, sei matite di vari colori appuntite col temperino; penne per il tondo e per il corsivo, penne da contabile, penne da disegno non più grandi di una piuma di merlo; ceralacca per sigillare, rossa, verde, viola, un tampone assorbente, una boccetta di colla liquida, priva di quelle macchie color ambra che spesso ne guastano la trasparenza; il minuscolo brandello di un cappotto militare, ridotto alle dimensioni di un nettapenne coi bordi dentellati; un grande calamaio affiancato da uno più piccolo, entrambi di bronzo, e una ciotola di lacca piena di polvere d’oro per asciugare l’inchiostro; un’altra ciotola contenente ostie di tutti i colori per sigillare (quelle bianche le mangiavo); sulla destra e sulla sinistra del tavolo, risme di carta vergata, rigata, filigranata…”.

Se Menuhin sapeva esattamente quello che voleva: suonare il violino; Colette sapeva con altrettanta certezza quello che non voleva: scrivere. A sei anni sapeva già leggere bene, ma non voleva assolutamente imparare a scrivere:

“No, scrivere no. Non volevo scrivere. Quando si sa leggere, quando si può penetrare nel regno incantato dei libri, che bisogno c’è di scrivere? — da giovane, io non ho mai, mai, provato il bisogno di scrivere. No, non mi alzavo di notte in gran segreto per scribacchiare poesie sul coperchio di una scatola di scarpe! No, non ho mai inviato parole ispirate al Vento dell’Ovest e neppure alla luna! No, tra i dodici e i quindici anni non ho mai preso bei voti nei temi. Perché avevo la sensazione, di giorno in giorno più intensa, di essere fatta, appunto, per non scrivere. Ero l’unica della specie, l’unica creatura venuta al mondo allo scopo di non scrivere”.

Ricapitoliamo quello che abbiamo appreso finora sul modo in cui il destino tocca l’infanzia. Nel caso di Collingwood, come un’inattesa annunciazione; nel caso di Manolete e di Colette, come un’inibizione che li induce a ritrarsi. In McClintock, Menuhin e Colette si nota inoltre il desiderio ossessivo di possedere gli strumenti materiali che rendono possibile il suo realizzarsi. E abbiamo visto la discrepanza che esiste tra il bambino e il daimon. Soprattutto, abbiamo imparato che la chiamata si fa sentire nei modi più strani e diversi da una persona all’altra. Non esiste un modello generale, ma solo uno specifico per ciascun caso.

Tuttavia, il lettore con un orecchio freudiano esercitato avrà individuato un fattore comune, la presenza massiccia di padri – il padre di Collingwood, il padre di McClintock, di Menuhin, di Colette! Come se le facilitazioni, eventualmente offerte dal padre influissero sulla vocazione del figlio. Questa “superstizione parentale”, come vedremo nel capitolo così intitolato, è difficile da evitare. La fantasia dell’influenza dei genitori sull’infanzia ci segue per tutta la vita, anche quando i genitori in carne e ossa si sono da un pezzo ridotte e fotografie sbiadite, sicché gran parte del loro potere deriva dall’idea di tale potere. Perché restiamo attaccati alla superstizione parentale? Come mai questa idea continua a farci da padre e da madre, ci conforta? Abbiamo forse paura di lasciare entrare il daimon nella nostra vita, paura che ci abbia chiamato, che ci stia ancora chiamando, e per questo ci rifugiamo in cucina? Ci ritraiamo in spiegazioni che coinvolgono i genitori, piuttosto che affrontare le pretese del destino.

Se Colette ebbe l’agio di procrastinare il proprio destino, o di riconoscerlo indirettamente, grazie all’intensità della propria resistenza, Golda Meir, primo ministro di Israele dal 1956 alla guerra del Kippur, fu spinta in prima linea dal proprio quando faceva la quinta elementare a Milwaukee. Golda organizzò un gruppo di protesta contro l’adozione nella scuola di libri di testo troppo costosi per i bambini poveri, i quali si vedevano così negato di fatto il diritto allo studio. Quella ragazzina di undici anni (!) affittò una sala per tenervi un’assemblea, raccolse fondi, organizzò le compagne, addestrò la sorellina a recitare una poesia socialista in yiddish e infine tenne un discorso all’assemblea. Non era già un capo di stato laburista?

La madre aveva insistito perché si scrivesse il discorso da leggere in pubblico, ma, ricorda Golda Meir, “a me pareva che avesse più senso dire lì per lì quello che avevo da dire, parole di testa mia”. Non sempre il futuro arriva in maniera così esplicita. Golda Meir, donna risoluta e portata al comando, uscì direttamente allo scoperto. Più o meno alla stessa età Eleanor Roosevelt, anch’essa donna risoluta e portata al comando, faceva il suo ingresso nel mondo del suo futuro non con l’azione, bensì rifugiandosi in fantasticherie.

Eleanor Roosevelt definì se stessa da piccola “una bambina infelice” e i suoi anni infantili “giornate grigie”: un modo di esprimersi a dir poco minimizzante e ben educato, se pensiamo a quello che aveva dovuto passare. “Vivevo con la paura costante della follia”. Prima dei nove anni aveva già perduto la madre, che non le aveva mai voluto bene, un fratello minore e il padre, un uomo frivolo e mondano. «E’ una bambina così strana, sembra una vecchietta, noi la chiamiamo sempre ‘nonnina’». Dai cinque anni, se non da prima, la naturale riservatezza si accentuò; Eleanor diventò più cupa, ostinata, scontrosa, acida e inetta (a sette anni ancora non sapeva leggere, e non era capace né di cucire né di cucinare, come ci si aspettava dalle ragazze del suo ambiente sociale). Diceva bugie, rubava; quando era in compagnia, faceva scenate da bambina asociale. Le diedero un precettore, che le dava lezioni e le imponeva la disciplina, e per il quale provò “un odio che durò per anni”.

Intanto “mi inventavo, giorno per giorno, una storia che era la cosa più reale di tutta la mia vita”. Nella sua storia, Eleanor si immaginava di vivere con il padre, dirigendo per lui la sua grande casa e accompagnandolo nei suoi viaggi. La storia andò avanti per anni, anche dopo che il padre era morto.

Oggi, il suo caso richiederebbe una terapia, diventerebbe “il caso di Eleanor R.”. Oggi, magari parallelamente a una terapia sistemica della famiglia, Eleanor sarebbe quasi certamente trattata con l’armamentario di psicofarmaci della biopsichiatria, confermandole così, con la forza di un dato biologico, la sensazione di essere “una bambina cattiva”. (La cattiveria devo averla nelle cellule, come un peccato originale, o come una malattia. Perché, altrimenti, mi darebbero queste pillole per farmi guarire, come quando ho la febbre o il mal di pancia?).

Alle sue complesse fantasticherie non verrebbe attribuito alcun valore intrinseco di manifestazione della fantasia del suo daimon e della sua vocazione. Sarebbero ridotte a fughe nell’irrealtà al limite del delirio. Diminuendo con gli psicofarmaci l’intensità e la frequenza delle sue immagini, la psichiatria avrebbe agio di curare una mente malata, con ciò stesso dimostrando, grazie a un ragionamento circolare, come ciò che ha eliminato fosse davvero malattia.

Un altro tipo di specialista, se chiamato a consulto sul caso di Eleanor R., coglierebbe un nesso tra il fantasticare giorno dopo giorno degli anni infantili e la rubrica giornalistica di commenti sulla realtà sociale che Eleanor tenne in seguito e che si intitolava “My Day”, la mia giornata. Il nostro specialista ridurrebbe il talento di Eleanor nell’immedesimarsi nei problemi di tutti gli strati sociali, il suo interesse per il benessere dell’umanità e la sua ottimistica visione a tutto campo, a una “reazione di compensazione” alle fantasie solitarie e autistiche delle giornate grigie della sua infanzia.

E anche qui un padre. Anche qui, l’appiglio per scivolare in un’interpretazione freudiana: la causa sia delle grigie depressioni sia della fuga in velleitarie fantasie di onnipotenza era il suo complesso di Elettra (amore per il padre e desiderio di sostituirsi alla madre). Ma, poiché quel tipo di fantasie avrebbe potuto avere un contenuto diverso – che so: fughe magiche, patti segreti, convegni romantici, animali salvifici e nozze regali – la teoria della ghianda propone una lettura molto diversa delle fantasie della piccola Eleanor.

Il loro contenuto di accudimento e di gestione organizzativa era finalizzato, era la preparazione alla vita di doveri che Eleanor avrebbe vissuto in futuro. Quelle fantasie erano inventate dalla sua vocazione e davvero erano più realistiche, da un punto di vista progettuale, della sua realtà quotidiana. L’immaginazione le faceva da maestra, istruendo la bambina per i più vasto compito di sevizio che l’attendevano: occuparsi dei bisogni di una famiglia complicata, di un marito paralizzato, dello stato di New York come moglie del governatore, degli Stati Uniti come moglie del presidente e addirittura delle Nazioni Unite. Le fantasie di occuparsi del “Padre” erano un esercizio propedeutico, in cui poter inserire la sua vocazione, l’immensa devozione al benessere altrui.

(……………)

eminente  ed eccezionale

Le storie che scandiscono questo come gli altri capitoli mostrano qual sia il punto focale di questo libro: principalmente, la nostra infanzia. E quale sia il metodo seguito: principalmente, un metodo aneddotico. E la passione che lo anima: il fuori del comune.

Questa passione richiede qualche chiarimento. Ciò che è fuori dal comune rivela un’immagine ingrandita e più pregnante di ciò che è comune. Lo studio del fuori del comune a scopi di ammaestramento ha una lunga tradizione, dalle biografie dei grandi uomini dell’antichità scritte da Varrone, Plutarco e Svetonio, attraverso le vite esemplari della patristica e quelle degli artisti del Rinascimento del Vasari, fino, di qua dell’Atlantico, agli Uomini rappresentativi di Emerson. Parallela a questa tradizione è la lettura in chiave edificante di personaggi della Bibbia come Abramo, Ruth, Ester e Davide, e delle vite dei santi, tutti luminosi esempi di personalità. Contemporaneamente, la tradizione teatrale proponeva come modelli nei quali vedere rispecchiata la nostra vita personaggi fuori del comune, da Edipo, Antigone, Fedra, Amleto, Lear e Faust giù giù fino a Willy Loman.

In questo libro si trovano divi del cinema, assassini e conduttori di talk show accostati a premi Nobel e uomini di Stato: questa compresenza e l’analogo spazio a essi dedicato tuttavia non vogliono sottintendere che celebrità e creatività si equivalgano. Il loro essere, tutti, personaggi eminenti illustra meglio la straordinaria potenza di ciò che chiama verso una particolare strada. Dunque, questo libro si limita a utilizzare ai propri fini i personaggi eminenti: per rendere più evidente, attraverso il loro destino, la vocazione presente anche nel nostro.

Noi useremo questi personaggi come in tutti i tempi i personaggi eminenti sono stati usati dalle rispettive culture: perché mostrando ciò di cui sono stati capaci, siano di esempio per le vite comuni. Le persone fuori del comune stimolano, guidano, mettono in guardia, ergendosi, come fanno, nelle sale dell’immaginazione – statue della grandezza, personificazioni del meraviglioso e della sofferenza -, ci aiutano a sostenere ciò che ci è stato dato così come esse hanno sostenuto ciò che fu dato loro. Conferiscono alla nostra vita una dimensione immaginativa. Che è ciò che cerchiamo quando compriamo una biografia e vi leggiamo gli intimi segreti di personaggi famosi, le loro vicende, i loro errori, i dettagli pettegoli. Non per abbassarle al nostro livello, ma per elevarci al loro, per rendere meno insopportabile il nostro mondo familiarizzandoci con il loro. Senza questi esempi del daimon, non avremmo alcun’altra categoria del fuori del comune, se non la psicologia diagnostica.

Queste personificazioni di un’immaginazione tesa al massimo ci accendono fin nell’anima e dell’anima sono i maestri. Non solo l’eroe con il suo culto, ma anche le figure tragiche, le dive e i comici e le vecchie megere e gli uomini di successo, ricchi e belli. L’esagerazione un po’ teatrale dei tratti di carattere tipica delle persone fuori del comune rientra nella tradizione romantica. Quando la tradizione della grandezza romantica, con il suo repertorio di pazzi, di amanti e di poeti è ridimensionata dall’egualitarismo, demolita dal cinismo accademico o definita delirio di grandezza dalla diagnostica psicoanalitica, allora quel vuoto culturale viene abusivamente occupato dalle star del pop, dagli eroi prefabbricati, dai Batman, e alla società non restano che celebrità fasulle su cui modellare la propria cultura.

Dunque questo libro vuole riportare indietro di duecento anni la psicologia, al tempo in cui l’entusiasmo romantico smantellava l’Età della ragione. Voglio che la psicologia ponga le sua basi nell’immaginazione delle persone, anziché farle oggetto di calcoli statistici e di classificazioni diagnostiche. Voglio che si guardi alle storie cliniche con la mente poetica, così da leggerle per quello che sono: forme letterarie del nostro tempo, e non relazioni scientifiche.

Del resto, le storie di casi clinici, più che quella dei pazienti, illustrano la malattia della psicologia. Mostrano come la psicologia – e tutti siamo contagiati dal suo modo di pensare – tragga le sue conclusioni risalendo da ciò che è comune a ciò che è fuori del comune, ma cancellando bellamente il “fuori del”.

Tra le epigrafi citate in apertura di questo libro, ce n’è una di Edgard Wind, uno dei maggiori studiosi dell’immaginazione rinascimentale. Vale la pena ricordarla:

“Un metodo che vada bene per le opere minori ma non per quelle grandi è ovviamente partito dalla parte sbagliata … il luogo comune può essere compreso come una riduzione dell’eccezionale, l’eccezionale non può, invece, essere compreso dilatando il luogo comune. Sia logicamente sia causalmente, l’elemento decisivo è l’eccezionale, perché esso introduce … la categoria più ampia”.

Se l’eccezionale è la categoria più comprensiva, allora potremo capire più cose sui recessi della natura umana studiando una persona eccezionale che non studiando un campione, per quanto ampio, di singoli casi assommati. Un unico episodio getta luce sull’intero campo visivo. Manolete in cucina che cerca di farsi piccolo per paura dei tori contenuti nel suo destino, Canetti che brandisce la scure per amore delle parole. Allora forse vedremo i disturbi infantili non tanto come problemi evolutivi quanto piuttosto come emblemi rivelatori.

Ciascun frammento biografico esemplifica la tesi centrale di questo libro: c’è bisogno di uno sguardo nuovo per ripristinare il senso e l’importanza della propria vita. E io attaccherò senza mezzi termini le convenzioni della percezione biografica secondo la quale il nostro presente sarebbe predeterminato dal tempo e dal passato.

Da quando Erodoto e Tucidide inventarono la storiografia e la Bibbia elencò le genealogie, tutto, in Occidente è raccontato in ordine cronologico. Sul tempo, ebrei e greci concordano; il tempo conta, letteralmente. Dal tempo dipende il progresso, l’evoluzione lo presuppone, le misurazioni, senza le quali non esisterebbero le scienze esatte, si basano su di esso. Le nozioni stesse di “nuovo” e di “perfezionato”, che allettano il nostro desiderio di consumatori, sono invenzioni del tempo. La ragione occidentale fatica a fermare il suo orologio. Perfino la sua vita più interna essa la concepisce come un orologio biologico, e il cuore non fa forse tic tac? Quell’aggeggio elettronico che portiamo al polso racchiude in un simbolo concreto la ragione occidentale condizionata dal tempo. In inglese, il nome stesso, watch, “orologio”, è affine ad awake, “sveglio, vigile”, e ad aware, “consapevole”. Siamo davvero convinti che tutte le cose si muovano nel tempo. Che il tempo trasporti sulla sua corrente tutto il mondo, tutte le specie e ciascuna esistenza individuale. Perciò, quando guardiamo le cose, le vediamo nel tempo. Quasi ci sembra di vedere il tempo stesso.

Per cambiare il modo di vedere le cose, bisogna innamorarsi. Allora la stessa cosa sembra del tutto diversa. Al pari dell’amore, il cambio di prospettiva può avere un effetto di riscatto, di redenzione, non nel senso religioso di salvare l’anima per il paradiso, ma in senso più pragmatico. Come al banco dei pegni, ci è dato qualcosa in cambio, il nostro pegno non era privo di valore come credevamo. I fastidiosi sintomi quotidiani possono godere di una rivalutazione, è possibile reclamarne l’utilità.

Sintomo, nella nostra cultura, significa qualcosa di negativo. In sé, il termine indica semplicemente una combinazione (syn) di eventi accidentali, né positivi né negativi, che fonde in un’immagine più cose. Come il giudizio sul loro valore non deve necessariamente essere morale, così il loro campo non deve necessariamente essere la medicina. In quanto eventi accidentali, il luogo dei sintomi non è innanzitutto la malattia, bensì il destino.

Una volta che i sintomi, anche se esprimono sofferenza, non siano più considerati in primo luogo come qualcosa di negativo, qualcosa che non va nel bambino, allora possiamo liberare la mente dalla sua fissazione di eliminare i sintomi in un bambino. Possiamo porre fine al pervertimento dell’adagio terapeutico “Il simile cura il simile” che ci spinge a fare del male al bambino per liberarlo da quel male che è il sintomo. Se il sintomo non è una cosa cattiva, non dobbiamo più usare cattivi metodi per farlo andare via.

Il terapeuta raffinato e superstizioso spesso si domanda che fine faccia il sintomo, una volta andato via. E’ scomparso davvero? Ritornerà sotto altra forma? E, adesso che non c’è più, che cosa avrà cercato di esprimere, in realtà? Questi dubbi danno la vaga sensazione che ci sia “dell’altro” nei sintomi, oltre alla loro negatività asociale, disfunzionale, penalizzante.

E predispongono a cogliere nel sintomo una intenzionalità nascosta, sicché lo possiamo considerare meno ansiosamente (meno moralisticamente), non più come qualcosa che non va, bensì, più semplicemente, come un fenomeno (e fenomeno in origine significava qualcosa che appare, splende, si accende, si illumina, si offre alla vista). Il sintomo vuole essere contemplato, non solo analizzato.

Una ristrutturazione della percezione: ecco a che cosa miro in questo libro. Voglio che vediamo il bambino che eravamo, l’adulto che siamo e i bambini che per qualche motivo richiedono le nostre cure in una luce che sposti la valenza da sciagura a benedizione o, se non proprio benedizione, almeno a sintomo di una vocazione.L’«impeto di ribellione» che assalì Collingwood era la reazione alla sua inadeguatezza; il bambino di otto anni non era all’altezza di Kant, ma Kant era “affar suo”, una cosa che lo “riguardava personalmente”. Una parte di Collingwood era troppo sprovveduta per decifrare il significato del testo; un’altra parte non aveva otto anni, non era mai stata un bambino.

Altri due esempi simili illustrano lo scarto tra le capacità del bambino e i bisogni del genio. Il primo riguarda la pioniera della genetica Barbara McClintock, il secondo il famoso violinista Yehudi Menuhin.

Riferisce Barbara McClintock (ricevette il premio Nobel per le sue ricerche, che richiedevano il tipo di riflessione solitaria e di manualità che a lei procuravano il piacere più profondo): “Quando avevo cinque anni, chiesi che mi regalassero degli attrezzi. Mio padre mi comperò degli attrezzi adatti alle mie mani, non attrezzi da adulti … ma non erano quelli che volevo io. Io volevo attrezzi veri, non dei giocattoli”.

Anche Menuhin voleva cose che le sue mani non erano in grado di adoperare. Il piccolo Yehudi, quando non aveva ancora quattro anni, sentiva spesso, seduto con i genitori in galleria al Curran Theatre, gli assolo del primo violino Louis Persinger. “Durante uno di questi concerti, chiesi ai miei genitori di regalarmi per il mio compleanno un violino e Louis Persinger come maestro”. Convinto di esaudire così il suo desiderio, un amico di famiglia gli regalò un violino giocattolo, di metallo, con le corde di metallo. “Io scoppiai in singhiozzi, scaraventai l’oggetto per terra e non lo volli vedere mai più”.

Poiché il genio non è limitato dall’età, dalla taglia, dall’istruzione o dall’esercizio, tutti i bambini nutrono un’ambizione smodata, hanno gli occhi più grandi della bocca. E allora: il bambino è narcisistico, vuole attirare l’attenzione, ha fantasie di onnipotenza; per esempio, vuole attrezzi e strumenti che non è in grado di maneggiare. Ma da dove viene l’onnipotenza infantile se non dalla grandiosità della visione che accompagna l’anima in questo mondo? I romantici avevano capito l’intrinseca grandiosità del bambino. Non hanno forse detto: “E veniamo al mondo lasciandoci alle spalle una scia di gloria”?

Le mani di Barbara non erano capaci di sollevare un pesante martello e le braccia di Yehudi erano troppo corte e le dita non avevano l’estensione sufficiente per un violino della misura grande, ma la sua visione lo era, di misura grande, per poter contenere la musica che aveva in testa. E doveva assolutamente avere il violino immaginato, perché Menuhin sapeva “istintivamente, che suonare voleva dire essere”.

Notiamo, qui, che il daimon del piccolo Yehudi rifiutava di essere trattato come un bambino, nonostante il bambino in carne e ossa avesse solo quattro anni. Fu il daimon a fare il capriccio, a pretendere la cosa vera, perché suonare il violino non era divertirsi con un giocattolo. Il daimon non vuole essere trattato come un bambino; non è un bambino, nemmeno un bambino interiore: anzi, può essere molto insofferente di questa contaminazione, di questa incarcerazione dentro il corpo immaturo di un bambino, di questa identificazione tra la sua visione perfetta e un imperfetto essere umano. L’insofferenza ribelle è, come dimostra l’esempio di Yehudi Menuhin, una caratteristica primaria del comportamento ispirato dalla ghianda.

Se esaminiamo l’infanzia della scrittrice francese Colette, scopriamo che anch’essa era affascinata dagli attrezzi del suo mestiere. A differenza del destino di Menuhin, che scattava come una tigre, il suo, più simile a un gatto francese che sonnecchia sul davanzale, stava in attesa sornione, procrastinando la propria necessità di scrivere con l’osservazione dei tentativi paterni. Un po’ come Manolete, Colette si tirava indietro – per proteggersi, forse?

Come lei stessa racconta, l’avversione nei confronti della scrittura la salvaguardò da un inizio troppo precoce, quasi che il suo daimon non volesse che lei cominciasse prima di essere pronta ad accogliere il suo dono, prima di aver letto, letto tanto, e prima di aver vissuto e imparato ed esercitato tutti i sensi, l’odorato, il tatto. La scrittura, con i suoi tormenti, non avrebbe comunque tardato, grazie a Dio, ad affliggere la sua vita, ma Colette doveva prima assorbire la materia sensuosa da immettere nei suoi scritti. Non soltanto gli eventi percepiti che penetravano nella sua sensuosa memoria, ma la materia stessa, palpabilissima, del mestiere di scrivere nella sua fisicità. Benché avesse ripudiato le parole, infatti Colette provava una vera avidità per i materiali della sua vocazione.

“Un sottomano di carta assorbente vergine, un righello di ebano, una, due, quattro, sei matite di vari colori appuntite col temperino; penne per il tondo e per il corsivo, penne da contabile, penne da disegno non più grandi di una piuma di merlo; ceralacca per sigillare, rossa, verde, viola, un tampone assorbente, una boccetta di colla liquida, priva di quelle macchie color ambra che spesso ne guastano la trasparenza; il minuscolo brandello di un cappotto militare, ridotto alle dimensioni di un nettapenne coi bordi dentellati; un grande calamaio affiancato da uno più piccolo, entrambi di bronzo, e una ciotola di lacca piena di polvere d’oro per asciugare l’inchiostro; un’altra ciotola contenente ostie di tutti i colori per sigillare (quelle bianche le mangiavo); sulla destra e sulla sinistra del tavolo, risme di carta vergata, rigata, filigranata…”.

Se Menuhin sapeva esattamente quello che voleva: suonare il violino; Colette sapeva con altrettanta certezza quello che non voleva: scrivere. A sei anni sapeva già leggere bene, ma non voleva assolutamente imparare a scrivere:

“No, scrivere no. Non volevo scrivere. Quando si sa leggere, quando si può penetrare nel regno incantato dei libri, che bisogno c’è di scrivere? — da giovane, io non ho mai, mai, provato il bisogno di scrivere. No, non mi alzavo di notte in gran segreto per scribacchiare poesie sul coperchio di una scatola di scarpe! No, non ho mai inviato parole ispirate al Vento dell’Ovest e neppure alla luna! No, tra i dodici e i quindici anni non ho mai preso bei voti nei temi. Perché avevo la sensazione, di giorno in giorno più intensa, di essere fatta, appunto, per non scrivere. Ero l’unica della specie, l’unica creatura venuta al mondo allo scopo di non scrivere”.

Ricapitoliamo quello che abbiamo appreso finora sul modo in cui il destino tocca l’infanzia. Nel caso di Collingwood, come un’inattesa annunciazione; nel caso di Manolete e di Colette, come un’inibizione che li induce a ritrarsi. In McClintock, Menuhin e Colette si nota inoltre il desiderio ossessivo di possedere gli strumenti materiali che rendono possibile il suo realizzarsi. E abbiamo visto la discrepanza che esiste tra il bambino e il daimon. Soprattutto, abbiamo imparato che la chiamata si fa sentire nei modi più strani e diversi da una persona all’altra. Non esiste un modello generale, ma solo uno specifico per ciascun caso.

Tuttavia, il lettore con un orecchio freudiano esercitato avrà individuato un fattore comune, la presenza massiccia di padri – il padre di Collingwood, il padre di McClintock, di Menuhin, di Colette! Come se le facilitazioni, eventualmente offerte dal padre influissero sulla vocazione del figlio. Questa “superstizione parentale”, come vedremo nel capitolo così intitolato, è difficile da evitare. La fantasia dell’influenza dei genitori sull’infanzia ci segue per tutta la vita, anche quando i genitori in carne e ossa si sono da un pezzo ridotte e fotografie sbiadite, sicché gran parte del loro potere deriva dall’idea di tale potere. Perché restiamo attaccati alla superstizione parentale? Come mai questa idea continua a farci da padre e da madre, ci conforta? Abbiamo forse paura di lasciare entrare il daimon nella nostra vita, paura che ci abbia chiamato, che ci stia ancora chiamando, e per questo ci rifugiamo in cucina? Ci ritraiamo in spiegazioni che coinvolgono i genitori, piuttosto che affrontare le pretese del destino.

Se Colette ebbe l’agio di procrastinare il proprio destino, o di riconoscerlo indirettamente, grazie all’intensità della propria resistenza, Golda Meir, primo ministro di Israele dal 1956 alla guerra del Kippur, fu spinta in prima linea dal proprio quando faceva la quinta elementare a Milwaukee. Golda organizzò un gruppo di protesta contro l’adozione nella scuola di libri di testo troppo costosi per i bambini poveri, i quali si vedevano così negato di fatto il diritto allo studio. Quella ragazzina di undici anni (!) affittò una sala per tenervi un’assemblea, raccolse fondi, organizzò le compagne, addestrò la sorellina a recitare una poesia socialista in yiddish e infine tenne un discorso all’assemblea. Non era già un capo di stato laburista?

La madre aveva insistito perché si scrivesse il discorso da leggere in pubblico, ma, ricorda Golda Meir, “a me pareva che avesse più senso dire lì per lì quello che avevo da dire, parole di testa mia”. Non sempre il futuro arriva in maniera così esplicita. Golda Meir, donna risoluta e portata al comando, uscì direttamente allo scoperto. Più o meno alla stessa età Eleanor Roosevelt, anch’essa donna risoluta e portata al comando, faceva il suo ingresso nel mondo del suo futuro non con l’azione, bensì rifugiandosi in fantasticherie.

Eleanor Roosevelt definì se stessa da piccola “una bambina infelice” e i suoi anni infantili “giornate grigie”: un modo di esprimersi a dir poco minimizzante e ben educato, se pensiamo a quello che aveva dovuto passare. “Vivevo con la paura costante della follia”. Prima dei nove anni aveva già perduto la madre, che non le aveva mai voluto bene, un fratello minore e il padre, un uomo frivolo e mondano. «E’ una bambina così strana, sembra una vecchietta, noi la chiamiamo sempre ‘nonnina’». Dai cinque anni, se non da prima, la naturale riservatezza si accentuò; Eleanor diventò più cupa, ostinata, scontrosa, acida e inetta (a sette anni ancora non sapeva leggere, e non era capace né di cucire né di cucinare, come ci si aspettava dalle ragazze del suo ambiente sociale). Diceva bugie, rubava; quando era in compagnia, faceva scenate da bambina asociale. Le diedero un precettore, che le dava lezioni e le imponeva la disciplina, e per il quale provò “un odio che durò per anni”.

Intanto “mi inventavo, giorno per giorno, una storia che era la cosa più reale di tutta la mia vita”. Nella sua storia, Eleanor si immaginava di vivere con il padre, dirigendo per lui la sua grande casa e accompagnandolo nei suoi viaggi. La storia andò avanti per anni, anche dopo che il padre era morto.

Oggi, il suo caso richiederebbe una terapia, diventerebbe “il caso di Eleanor R.”. Oggi, magari parallelamente a una terapia sistemica della famiglia, Eleanor sarebbe quasi certamente trattata con l’armamentario di psicofarmaci della biopsichiatria, confermandole così, con la forza di un dato biologico, la sensazione di essere “una bambina cattiva”. (La cattiveria devo averla nelle cellule, come un peccato originale, o come una malattia. Perché, altrimenti, mi darebbero queste pillole per farmi guarire, come quando ho la febbre o il mal di pancia?).

Alle sue complesse fantasticherie non verrebbe attribuito alcun valore intrinseco di manifestazione della fantasia del suo daimon e della sua vocazione. Sarebbero ridotte a fughe nell’irrealtà al limite del delirio. Diminuendo con gli psicofarmaci l’intensità e la frequenza delle sue immagini, la psichiatria avrebbe agio di curare una mente malata, con ciò stesso dimostrando, grazie a un ragionamento circolare, come ciò che ha eliminato fosse davvero malattia.

Un altro tipo di specialista, se chiamato a consulto sul caso di Eleanor R., coglierebbe un nesso tra il fantasticare giorno dopo giorno degli anni infantili e la rubrica giornalistica di commenti sulla realtà sociale che Eleanor tenne in seguito e che si intitolava “My Day”, la mia giornata. Il nostro specialista ridurrebbe il talento di Eleanor nell’immedesimarsi nei problemi di tutti gli strati sociali, il suo interesse per il benessere dell’umanità e la sua ottimistica visione a tutto campo, a una “reazione di compensazione” alle fantasie solitarie e autistiche delle giornate grigie della sua infanzia.

E anche qui un padre. Anche qui, l’appiglio per scivolare in un’interpretazione freudiana: la causa sia delle grigie depressioni sia della fuga in velleitarie fantasie di onnipotenza era il suo complesso di Elettra (amore per il padre e desiderio di sostituirsi alla madre). Ma, poiché quel tipo di fantasie avrebbe potuto avere un contenuto diverso – che so: fughe magiche, patti segreti, convegni romantici, animali salvifici e nozze regali – la teoria della ghianda propone una lettura molto diversa delle fantasie della piccola Eleanor.

Il loro contenuto di accudimento e di gestione organizzativa era finalizzato, era la preparazione alla vita di doveri che Eleanor avrebbe vissuto in futuro. Quelle fantasie erano inventate dalla sua vocazione e davvero erano più realistiche, da un punto di vista progettuale, della sua realtà quotidiana. L’immaginazione le faceva da maestra, istruendo la bambina per i più vasto compito di sevizio che l’attendevano: occuparsi dei bisogni di una famiglia complicata, di un marito paralizzato, dello stato di New York come moglie del governatore, degli Stati Uniti come moglie del presidente e addirittura delle Nazioni Unite. Le fantasie di occuparsi del “Padre” erano un esercizio propedeutico, in cui poter inserire la sua vocazione, l’immensa devozione al benessere altrui.

(……………)

eminente  ed eccezionale

Le storie che scandiscono questo come gli altri capitoli mostrano qual sia il punto focale di questo libro: principalmente, la nostra infanzia. E quale sia il metodo seguito: principalmente, un metodo aneddotico. E la passione che lo anima: il fuori del comune.

Questa passione richiede qualche chiarimento. Ciò che è fuori dal comune rivela un’immagine ingrandita e più pregnante di ciò che è comune. Lo studio del fuori del comune a scopi di ammaestramento ha una lunga tradizione, dalle biografie dei grandi uomini dell’antichità scritte da Varrone, Plutarco e Svetonio, attraverso le vite esemplari della patristica e quelle degli artisti del Rinascimento del Vasari, fino, di qua dell’Atlantico, agli Uomini rappresentativi di Emerson. Parallela a questa tradizione è la lettura in chiave edificante di personaggi della Bibbia come Abramo, Ruth, Ester e Davide, e delle vite dei santi, tutti luminosi esempi di personalità. Contemporaneamente, la tradizione teatrale proponeva come modelli nei quali vedere rispecchiata la nostra vita personaggi fuori del comune, da Edipo, Antigone, Fedra, Amleto, Lear e Faust giù giù fino a Willy Loman.

In questo libro si trovano divi del cinema, assassini e conduttori di talk show accostati a premi Nobel e uomini di Stato: questa compresenza e l’analogo spazio a essi dedicato tuttavia non vogliono sottintendere che celebrità e creatività si equivalgano. Il loro essere, tutti, personaggi eminenti illustra meglio la straordinaria potenza di ciò che chiama verso una particolare strada. Dunque, questo libro si limita a utilizzare ai propri fini i personaggi eminenti: per rendere più evidente, attraverso il loro destino, la vocazione presente anche nel nostro.

Noi useremo questi personaggi come in tutti i tempi i personaggi eminenti sono stati usati dalle rispettive culture: perché mostrando ciò di cui sono stati capaci, siano di esempio per le vite comuni. Le persone fuori del comune stimolano, guidano, mettono in guardia, ergendosi, come fanno, nelle sale dell’immaginazione – statue della grandezza, personificazioni del meraviglioso e della sofferenza -, ci aiutano a sostenere ciò che ci è stato dato così come esse hanno sostenuto ciò che fu dato loro. Conferiscono alla nostra vita una dimensione immaginativa. Che è ciò che cerchiamo quando compriamo una biografia e vi leggiamo gli intimi segreti di personaggi famosi, le loro vicende, i loro errori, i dettagli pettegoli. Non per abbassarle al nostro livello, ma per elevarci al loro, per rendere meno insopportabile il nostro mondo familiarizzandoci con il loro. Senza questi esempi del daimon, non avremmo alcun’altra categoria del fuori del comune, se non la psicologia diagnostica.

Queste personificazioni di un’immaginazione tesa al massimo ci accendono fin nell’anima e dell’anima sono i maestri. Non solo l’eroe con il suo culto, ma anche le figure tragiche, le dive e i comici e le vecchie megere e gli uomini di successo, ricchi e belli. L’esagerazione un po’ teatrale dei tratti di carattere tipica delle persone fuori del comune rientra nella tradizione romantica. Quando la tradizione della grandezza romantica, con il suo repertorio di pazzi, di amanti e di poeti è ridimensionata dall’egualitarismo, demolita dal cinismo accademico o definita delirio di grandezza dalla diagnostica psicoanalitica, allora quel vuoto culturale viene abusivamente occupato dalle star del pop, dagli eroi prefabbricati, dai Batman, e alla società non restano che celebrità fasulle su cui modellare la propria cultura.

Dunque questo libro vuole riportare indietro di duecento anni la psicologia, al tempo in cui l’entusiasmo romantico smantellava l’Età della ragione. Voglio che la psicologia ponga le sua basi nell’immaginazione delle persone, anziché farle oggetto di calcoli statistici e di classificazioni diagnostiche. Voglio che si guardi alle storie cliniche con la mente poetica, così da leggerle per quello che sono: forme letterarie del nostro tempo, e non relazioni scientifiche.

Del resto, le storie di casi clinici, più che quella dei pazienti, illustrano la malattia della psicologia. Mostrano come la psicologia – e tutti siamo contagiati dal suo modo di pensare – tragga le sue conclusioni risalendo da ciò che è comune a ciò che è fuori del comune, ma cancellando bellamente il “fuori del”.

Tra le epigrafi citate in apertura di questo libro, ce n’è una di Edgard Wind, uno dei maggiori studiosi dell’immaginazione rinascimentale. Vale la pena ricordarla:

“Un metodo che vada bene per le opere minori ma non per quelle grandi è ovviamente partito dalla parte sbagliata … il luogo comune può essere compreso come una riduzione dell’eccezionale, l’eccezionale non può, invece, essere compreso dilatando il luogo comune. Sia logicamente sia causalmente, l’elemento decisivo è l’eccezionale, perché esso introduce … la categoria più ampia”.

Se l’eccezionale è la categoria più comprensiva, allora potremo capire più cose sui recessi della natura umana studiando una persona eccezionale che non studiando un campione, per quanto ampio, di singoli casi assommati. Un unico episodio getta luce sull’intero campo visivo. Manolete in cucina che cerca di farsi piccolo per paura dei tori contenuti nel suo destino, Canetti che brandisce la scure per amore delle parole. Allora forse vedremo i disturbi infantili non tanto come problemi evolutivi quanto piuttosto come emblemi rivelatori.

Ciascun frammento biografico esemplifica la tesi centrale di questo libro: c’è bisogno di uno sguardo nuovo per ripristinare il senso e l’importanza della propria vita. E io attaccherò senza mezzi termini le convenzioni della percezione biografica secondo la quale il nostro presente sarebbe predeterminato dal tempo e dal passato.

Da quando Erodoto e Tucidide inventarono la storiografia e la Bibbia elencò le genealogie, tutto, in Occidente è raccontato in ordine cronologico. Sul tempo, ebrei e greci concordano; il tempo conta, letteralmente. Dal tempo dipende il progresso, l’evoluzione lo presuppone, le misurazioni, senza le quali non esisterebbero le scienze esatte, si basano su di esso. Le nozioni stesse di “nuovo” e di “perfezionato”, che allettano il nostro desiderio di consumatori, sono invenzioni del tempo. La ragione occidentale fatica a fermare il suo orologio. Perfino la sua vita più interna essa la concepisce come un orologio biologico, e il cuore non fa forse tic tac? Quell’aggeggio elettronico che portiamo al polso racchiude in un simbolo concreto la ragione occidentale condizionata dal tempo. In inglese, il nome stesso, watch, “orologio”, è affine ad awake, “sveglio, vigile”, e ad aware, “consapevole”. Siamo davvero convinti che tutte le cose si muovano nel tempo. Che il tempo trasporti sulla sua corrente tutto il mondo, tutte le specie e ciascuna esistenza individuale. Perciò, quando guardiamo le cose, le vediamo nel tempo. Quasi ci sembra di vedere il tempo stesso.

Per cambiare il modo di vedere le cose, bisogna innamorarsi. Allora la stessa cosa sembra del tutto diversa. Al pari dell’amore, il cambio di prospettiva può avere un effetto di riscatto, di redenzione, non nel senso religioso di salvare l’anima per il paradiso, ma in senso più pragmatico. Come al banco dei pegni, ci è dato qualcosa in cambio, il nostro pegno non era privo di valore come credevamo. I fastidiosi sintomi quotidiani possono godere di una rivalutazione, è possibile reclamarne l’utilità.

Sintomo, nella nostra cultura, significa qualcosa di negativo. In sé, il termine indica semplicemente una combinazione (syn) di eventi accidentali, né positivi né negativi, che fonde in un’immagine più cose. Come il giudizio sul loro valore non deve necessariamente essere morale, così il loro campo non deve necessariamente essere la medicina. In quanto eventi accidentali, il luogo dei sintomi non è innanzitutto la malattia, bensì il destino.

Una volta che i sintomi, anche se esprimono sofferenza, non siano più considerati in primo luogo come qualcosa di negativo, qualcosa che non va nel bambino, allora possiamo liberare la mente dalla sua fissazione di eliminare i sintomi in un bambino. Possiamo porre fine al pervertimento dell’adagio terapeutico “Il simile cura il simile” che ci spinge a fare del male al bambino per liberarlo da quel male che è il sintomo. Se il sintomo non è una cosa cattiva, non dobbiamo più usare cattivi metodi per farlo andare via.

Il terapeuta raffinato e superstizioso spesso si domanda che fine faccia il sintomo, una volta andato via. E’ scomparso davvero? Ritornerà sotto altra forma? E, adesso che non c’è più, che cosa avrà cercato di esprimere, in realtà? Questi dubbi danno la vaga sensazione che ci sia “dell’altro” nei sintomi, oltre alla loro negatività asociale, disfunzionale, penalizzante.

E predispongono a cogliere nel sintomo una intenzionalità nascosta, sicché lo possiamo considerare meno ansiosamente (meno moralisticamente), non più come qualcosa che non va, bensì, più semplicemente, come un fenomeno (e fenomeno in origine significava qualcosa che appare, splende, si accende, si illumina, si offre alla vista). Il sintomo vuole essere contemplato, non solo analizzato.

Una ristrutturazione della percezione: ecco a che cosa miro in questo libro. Voglio che vediamo il bambino che eravamo, l’adulto che siamo e i bambini che per qualche motivo richiedono le nostre cure in una luce che sposti la valenza da sciagura a benedizione o, se non proprio benedizione, almeno a sintomo di una vocazione.

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